martedì 22 agosto 2017

QUANDO I NAZIFASCISTI USAVANO IL FUOCO: LA COOPERATIVA BRUCIATA DI FELINA

A Felina, e nei paesi limitrofi, quell’edificio lo si è sempre definito “cooperativa bruciata”, anche se il giusto
La Casa del Popolo, poi cooperativa di consumo di Felina
appellativo sarebbe “Ca’ Martino”. Tuttavia, il motivo del presunto incendio cui fa riferimento il nome - e la dinamica stessa dell’evento - sono sconosciuti ai più.
Sembra che nel centro abitato, nel corso degli anni, nessuno ne abbia mai parlato, quasi ci fossero ambiguità da occultare, oppure dolori troppo pesanti da accettare. Intanto, vediamo cos’erano le cooperative di consumo come quella di Ca’ Martino.
La prima nacque nel 1854 a Torino: era uno spaccio dei “magazzini di previdenza”, sorto per difendere il potere d’acquisto dei consumatori attraverso l’acquisto della merce direttamente dai grossisti, rivendendola poi ai soci a prezzo di costo. Nel decenni seguenti, queste cooperative divennero realtà radicate in tutt’Italia. In provincia di Reggio Emilia, la prima fu costituita a Fabbrico nel 1886, mentre quella di Ca’ Martino venne inaugurata nel nel 1908; a quella data fa riferimento un libro sulla cooperazione in cui si parla, infatti, della costituzione della “Cooperativa di Consumo, Produzione e Costruzioni casa del Popolo di Felina”, attiva poi anche durante il fascismo e ancora nel 1946. Il sovrapporta di ferro battuto, datato 1906, è ancor oggi al suo posto.
Alla guida della Lega delle Cooperative, era giunto, nel 1912, Antonio Vergnanini, socialista, interprete di una linea di dialogo con il fascismo per provare a tenere in piedi ciò che si era creato. L’avvento del fascismo, però, significò violenza squadrista e irreggimentazione nel nuovo assetto totalitario del sistema cooperativistico.
Le cooperative di consumo erano state pensate come centro della vita sociale dei soci: vendita di generi alimentari, bar, circoli ricreativi, attività assistenziale. Difatti, in quella di Felina c’era pure un salone adibito a “teatro”, dove recitava la “Filarmonica” del paese.  
Eppure, dell’incendio e dei suoi perché, in seguito nessuno proferì parola. Persino il motivo dell’intitolazione di “Via Maiotti”  alla vittima – strada che, a fianco dell’edificio, si addentra nella borgata - pare rimosso dalla memoria popolare.
I genitori del giovane Daniele Ghirelli, per esempio, sono cresciuti proprio lì, ma più di tanto non sapevano; è toccato a lui, il nipote, il privilegio di raccogliere le confidenze dei nonni, ed è lui che ci riferisce una prima versione di quell’evento: “Ero ancora un bambino quando me lo raccontarono, ma mi ricordo piuttosto bene le parole di nonna Laura Manfredi e del mio bisnonno Remo Manfredi. All’epoca, abitavano nella casa a fianco della cooperativa. Mi dissero che, a seguito dell’uccisione di due soldati tedeschi chiamati ‘mongoli’ (russi di provenienza asiatica che avevano disertato e si erano arruolati nell’esercito tedesco), erano confluite a Felina alcune truppe d’assalto tedesche per operare rastrellamenti. Prima di incendiare la cooperativa fu ucciso il gestore, che non aveva rivelato informazioni riguardo ai partigiani e ai loro nascondigli. L’azione fu condotta principalmente da truppe d’assalto tedesche (sia Wehrmacht che SS), con la collaborazione dei tedeschi del presidio. Erano presenti alcuni militi fascisti della Gnr e un sottufficiale, che si limitarono a guardare e non ebbero parte attiva. Ricordo che mia nonna mi riferì di un giovane milite proveniente da Reggio, il quale era disperato, angosciato per le conseguenze personali che avrebbe potuto subire. Stando ai fatti, credo si possa parlare di eccidio nazifascista in quanto la componente fascista era presente e appoggiò l’azione, anche se fisicamente l’uccisione e l’incendio furono opera dei tedeschi.”
Ma chi era Clarenzio Maiotti, il gestore, il “banconiere” che venne trucidato? Ce lo riferiscono due dei nipoti, i cugini Eliseo Incerti e Graziella Canovi.
Intanto era un falegname, bravissimo a fabbricare mobili di pregio; la professoressa Cleonice Pignedoli, ricercatrice storica per Istoreco, dice di avere ancora in casa un bell’armadio realizzato da Clarenzio. Graziella, la nipote, ricorda di aver accompagnato il nonno nel suo laboratorio, dove ancora si dedicava al suo mestiere, pur gestendo la cooperativa.
Come capo falegname, Maiotti aveva lavorato alla costruzione della diga e della centrale idroelettrica di Ligonchio, iniziata nel 1919 e terminata circa dieci anni dopo, per cui Clarenzio si era trasferito a vivere a Giarola, con tutta la famiglia. I figli più grandi avevano frequentato dunque le scuole sul crinale, fino a che tutti erano tornati a Felina.

In casa, Clarenzio era un uomo austero, autorevole; uno che batteva i tacchi a terra e otteneva subito il silenzio. Si sedeva sempre su un angolo della sedia: Graziella dice di avere ereditato lo stesso vezzo. La moglie Clara parlava benissimo il francese e se la cavava con lo spagnolo, perché, dopo aver perso il primo figlio, nel 1906, per non sprecare il latte era andata balia a Marsiglia. Successivamente, la famiglia presso cui lavorava si era trasferita alle Canarie e lei li aveva seguiti, restandoci per tre anni. Al ritorno a Felina, la signora (una principessa?) le aveva donato bauli e bauli di preziosa biancheria ricamata che era finita nelle stanze sovrastanti la cooperativa. Si emigrava da Felina, a quei tempi; nella famiglia di Eliseo, da parte paterna se ne andarono in Canada, mentre da parte materna in Francia.
Ma veniamo al settembre 1944. Da ciò che racconta Eliseo, una spia dei tedeschi, un certo “Pecca”, venne prelevato dai partigiani nell’osteria della cooperativa; Clarenzio Maiotti avrebbe dovuto avvisare del fatto il comando tedesco (che alloggiava nell’oggi ex bar centrale del paese).
Non lo fece però entro un’ora, così che altri informarono i nazisti prima di lui.
Felinesi dei primi del Novecento

Ello, il babbo di Eliseo e marito di Maria, figlia di Clarenzio, andò dal suocero per convincerlo a scappare, ma non ottenne ascolto. Scapparono tutti, tranne lui.
Nel frattempo, a Ca’ Martino erano giunti due giovani militari, allo sbando dopo l’armistizio, che erano passati per Felina Amata e avevano chiesto la strada per il Cerreto: li chiamavano “i ragazzi dell’avvistamento” e forse provenivano dalla divisione Monterosa.
Il giorno dopo, una squadra di fascisti calò dal crinale e, insieme ai tedeschi, prelevarono Canovi, i due ragazzi, freddarono un uomo che non si era fermato all’alt in un prato lì vicino, depredarono la casa, la vuotarono di tutto, compresi i bauli della biancheria di Clara (che, per anni, a Felina osservò i vari bucati stesi in giro per capire dove fosse finita la sua roba), poi lanciarono bombe incendiarie per simulare lo scoppio di armi partigiane nascoste all’interno. La cooperativa bruciò. La famiglia Maiotti perse tutto.
Clarenzio venne condotto al comando antiguerriglia di Pantano, luogo dell’orrore. Il luogo del famigerato boia Warma. “Una faccia come tante ,- raccontò poi il partigiano Elso Conconi, - impersonale, insignificante... Due occhi d’acciaio e un ghigno da mascalzone. Era un torturatore e un massacratore spietato. Infilzava i testicoli dei malcapitati con grossi aghi...”
A settembre del ’44, a Pantano c’erano 90 uomini, altri 40 a Poiago e altri 40 ancora al Cigarello.
Il centro antiguerriglia, dove operavano anche le SS, imprigionava i partigiani catturati e i sospetti fermati durante i rastrellamenti. Il prevosto, don Antonio Panini, ha lasciato una testimonianza agghiacciante di ciò che lì avveniva: morti sepolti qua e là nei dintorni del cimitero, riesumati e trovati legati con catene, fil di ferro, imbavagliati, probabilmente seviziati per giorni.


Eliseo è riuscito a parlare con un signore ultranovantenne del luogo che di quei fatti conserva il ricordo. Dopo diversi giorni di prigionia, Clarenzio venne portato a ridosso al cimitero con gli altri due ragazzi e gli venne fatta scavare la fossa. I ragazzi erano legati mani e piedi con il fil di ferro. Uno dei nazisti colpì Clarenzio con il calcio del fucile, spaccandogli il cranio, mentre i due giovani furono gettati vivi nella fossa e sepolti con lui.
A febbraio, Ello e Velia (mamma di Graziella) andarono a recuperare i corpi. Scoprirono le mani e le unghie dei ragazzi devastate nell’estremo tentativo di liberarsi una volta interrati vivi.
Clarenzio trovò finalmente riposo nel cimitero di Felina, insieme a uno dei militari, sepolto come “ignoto”, mentre l’altro venne recuperato dalla sua famiglia.
Nel frattempo, il figlio più piccolo di Clarenzio, Luciano, appena quattordicenne, spaventato e avvilito, trovandosi allo sbando scappò con i partigiani, diventando il più giovane “ribelle” della montagna reggiana. Il caso volle poi (si era fatto male a una gamba e non era presente), che non finisse ammazzato nella strage di Gatta. Oggi, Luciano vive nella zona di Marsiglia e, ogni domenica, parla per telefono con il nipote Eliseo; è grazie a lui se molti particolari della vicenda sono venuti alla luce.
Graziella dice che il trasporto dei corpi fino a Felina avvenne con la paura di essere bombardati, perché gli aerei alleati, quando avvistavano qualcosa che sembrava una colonna, oppure un luccichio che poteva ricordare un’arma, sganciavano le bombe.
Era successo a Casa Sistofano ed era successo alle Case di Sopra,vicino a Roncroffio, dove erano morti un uomo che stava arando, un ragazzino e una mucca. Anche a Felina Amata era stata bombardata la famiglia “dei caporali” mentre lavoravano nei campi.
Della “Casa del popolo”, la prima cooperativa di consumo della montagna, resta una vecchia foto dell’inaugurazione.

Alla finestra, si vede una bimba: è Maria, la mamma di Eliseo, con il suo papà Clarenzio Maiotti, il “banconiere” coraggioso che rifiutò di scappare davanti alla furia nazifascista. 

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