martedì 22 agosto 2017

PAOLO CAVECCHIA: IL SEMINARIO, LA TUNISIA, TANTI FIGLI E L'AMORE PER LA PACE

Paolo Cavecchia con la seconda famiglia
Avrà avuto circa sette anni, Natalina, quando vide quell’uomo comparire sull’aia. Smise di giocare e lo osservò avvicinarsi: era vestito come un vero signore, aveva un “borsalino” in testa e due bei baffoni. “Chi sei?”, le disse. La bimba non si scompose: “Sono la figlia della Lisa.”, e lui: “ La tua mamma dov’è?”, “Nei campi a lavorare...”, “Bene, portami da lei.” La bimba si alzò, poi, un po’ incerta, gli chiese: “Ma tu, chi sei?”, l’uomo sorrise: “Sono il tuo babbo...”. Natalina lo prese per mano e lo condusse da mamma Elisa.
Paolo Cavecchia era tornato; il babbo di Natalina era tornato.
Il signore (che pareva un possidente), era nato nel 1882 a Fontanaluccia, in una famiglia di contadini. Dopo la morte prematura del padre – originario della Val D’Asta – era stato costretto a spostarsi quotidianamente alla Macchiaccia, con la madre, per lavorare in un podere enorme, di quelli necessitano di molti braccianti.
Il padrone era soprannominato “Macchiacin” e le sue terre andavano da Fontanaluccia fino a Montefiorino, comprendendo anche il paese di Riccovolto. Il signor “Macchiacin” (Stefani?) si accorse presto quanto quel ragazzetto fosse sveglio, troppo dotato per restare tutta la vita nei campi, e suggerì alla madre di fargli proseguire gli studi: “Avessi avuto i soldi per farlo studiare, non sarei certo qui a lavorare.”, rispose lei. “Macchiacin” non si scompose: quel bambino doveva assolutamente andare a scuola, pertanto si offrì di pagargli la retta del seminario di Marola.
Latino, greco, filosofia, francese e tutte le altre materie del ginnasio vennero affrontate senza problemi dal giovane Cavecchia, tanto che si diplomò nei tempi prestabiliti. Anche la musica, l’opera e il canto gregoriano lo appassionarono e divennero parte del suo bagaglio culturale. Poi, però, c’era da scegliere: diventare sacerdote, o abbandonare per sempre la talare, vestiario obbligatorio per tutti gli studenti del seminario?  
Aveva dei dubbi, il giovanotto, dubbi che riguardavano il celibato: “Al nonno piacevano troppo le donne”, sostiene oggi, ridendo, il nipote Flavio, che ci ha aiutati a ricostruirne la storia. Comunque, il rettore ascoltò Paolo e lo consigliò di diventare un buon padre di famiglia: “Molto meglio che un cattivo prete!”, gli disse, così Paolo tornò sui monti a lavorare la terra.  
Prima, però, cercò lavoro a Genova, dove già viveva la sorella Carola. Lui, che parlava e capiva il francese e il latino, a Genova si trovò immerso in una lingua indecifrabile. Girovagando per la città con un amico, s’imbattè in un cantiere; si avvicinò ai muratori e domandò se avessero bisogno di operai. Quelli lo guardarono perplessi, mostrando di non capire una parola d’italiano, e gli risposero in dialetto stretto: a lui sembrò che dicessero “masacàn”, ma ancora non sapeva che indicasse proprio il “muratore”. Il capocantiere, più “erudito”, si rivolse ai due giovani in un italiano stentato, chiedendo s’erano “capaci a portar pietre” e Paolo rispose: “Be’, se non sono troppo pesanti...” Paolo, dunque, rimase per un periodo a lavorare a Genova e, per imparare il dialetto, si comprava – e leggeva regolarmente - due giornali (‘U Balilla e ‘U Tramvai) scritti in genovese.

La sorella Carola, invece, non era a Genova per lavoro, ma s’era fatta suora, con il nome di Maria Eloisa. Era entrata nel convento delle Immacolatine, era diventata madre superiore provinciale e avrebbe poi girato il mondo come missionaria, prima in Canada e in seguito in America Latina.
La prima famiglia
Lasciata la Liguria, Paolo tornò a Fontanaluccia e s’innamorò di Elisa Zanni; la sposò e, da buon cattolico praticante qual era, seguendo i consigli del rettore del seminario, con lei mise subito al mondo cinque figli. Una era proprio Natalina, che non aveva fatto in tempo a conoscerlo. Non per la guerra, no, che Paolo aborriva le guerre e le armi, anzi: era stato proprio per evitare la Grande Guerra che il babbo di Natalina se n’era andato. Ma cos’era successo?
Racconta Maria, la quart’ultima figlia, che il babbo era un accanito lettore: leggeva in continuazione, libri, quotidiani, riviste: “Quando ha un libro in mano, diceva mia madre, può anche bruciare la casa...”. Proprio leggendo i quotidiani, nel 1914 Paolo si rese conto che anche l’Italia sarebbe entrata in guerra. Pensò ai suoi figli, alla moglie e decise di non rischiare. Che fare per evitare di essere richiamato? In effetti, Luigi Zanni, fratello della moglie, sarebbe andato al fronte e imprigionato a Mauthausen... Paolo era un uomo di pace, e lo era, innanzitutto, per principi religiosi, quelli respirati in seminario. Non voleva partecipare a quel massacro.
Il nipote Flavio Cavecchia, che vive a Genova, ricorda di averlo visto arrivare diverse volte a togliere loro di mano le armi finte, quando, bimbetti, giocavano a indiani e cow boy: “Non si usano le armi, nemmeno per finta! Ricordate i comandamenti!” Così come li sgridava (ma non li picchiava mai) se andavano a rubare la frutta nei campi altrui, obbligandoli a restituirla e scusarsi.
È leggendo i giornali che Paolo scopre della richiesta di manodopera nel Protettorato francese della Tunisia: si trattava di andare a lavorare in miniera, eppure era sempre meglio che far la guerra. Partirà, Paolo, con un amico montanaro, passando per il porto di Marsiglia, e resterà in Tunisia fino al 1916. Laggiù, poiché era l’unico a parlare bene il francese, venne impiegato dai capi come interprete, sia con gli arabi, sia con gli altri italiani. Ma la sua sete di sapere non si spense, nonostante il duro lavoro e la distanza da casa. Lo incuriosiva la lingua araba, tanto che, dopo aver fatto amicizia con un abitante del posto, gli chiese di insegnargli l’arabo; in cambio, lui gli avrebbe dato lezioni di italiano. Paolo Cavecchia, nato a Fontanaluccia, figlio di contadini, parlava ora una lingua in più che andava ad aggiungersi al latino, greco e francese del ginnasio (e al genovese!), e certo non si trattava di una lingua semplice.
Figli e nipoti

Tornò a fine guerra e passò di nuovo da Marsiglia; si era cucito i soldi nella fodera del cappello, perché sapeva che, giunti in porto, ci sarebbe stato il solito tentativo, da parte dei malavitosi, di derubare i migranti. Tornò a casa dalla sua Elisa, ma la loro serenità durò poco: la “spagnola”, epidemia spaventosa, colpì la famiglia e si portò via la moglie, il terzogenito e l’ultimo figlio di soli otto mesi, nato dopo il suo ritorno. Paolo rimase solo ad occuparsi degli altri figli e ricominciò a lavorare in campagna; la sua cultura, però, gli permise di fare altre attività, come portare in giro le cartelle esattoriali, dare lezione di latino ai figli dei benestanti, dare lezione di musica, persino scrivere rogiti. Dice il nipote Flavio che, quando Paolo morì, sotto al letto trovarono una cassa colma di documenti: copie dei rogiti che lui stesso aveva compilato, per poi recarsi a Modena dal notaio il quale, quando lo vedeva, gli diceva: “L’avete scritto voi, Cavecchia? Allora va bene.”, e gli metteva il timbro. Andando in giro per i paesi con le cartelle esattoriali, conobbe, a Riccovolto, una ragazza di vent’anni più giovane, Annunziata Corti. Nonostante la differenza d’età, decisero di sposarsi. Sempre in osservanza del biblico “crescete e moltiplicatevi”, Paolo e Annunziata, dal 1920 al 1944 misero al mondo ben dodici figli.
Uomo di rettitudine specchiata, cercò sempre di dare una mano ai più poveri, e mantenne le consuetudini religiose del seminario: la messa, il canto in chiesa, l’aiuto per il coro. La passione per la musica passò a figli e nipoti: Giuseppe, padre di Flavio, suonava la chitarra; Giovanni il violino e sua figlia Silvia la fisarmonica. Anche Francesco, figlio della seconda moglie, suonava la fisarmonica, e furono gli zii d’America (un fratello di Paolo viveva là e aveva sposato un’americana) a regalargliela.
Questo zio d’America spediva loro regolarmente dei pacchi, nel dopoguerra, e Maria ricorda di aver visto per la prima volta il caffè e i cioccolatini in quei pacchi.
La sorella suora e la cognata americana
Grande amico di don Mario Prandi, Paolo non gli risparmiava frecciatine riguardanti le sue prediche chilometriche, tanto che, un giorno, don Mario gli disse: “Oh, Paolo, mi hanno detto che parlate male dei preti, è vero?” “Non dei preti, ma di voi solo!”, rispose lui.
Oltre alle belle chiacchierate con il poeta Umberto Monti (si autodefinivano, forse scherzando, i più colti della montagna), Paolo Cavecchia continuava a parlare in arabo con l’amico con cui era emigrato in Tunisia, soprattutto quando volevano evitare che la gente intorno capisse ciò che dicevano.
Verso la fine della sua lunga vita, amava farsi portare a spasso sulla Cinquecento dal nipote Flavio. Un giorno, volle andare al podere della Macchiaccia; lassù, davanti alla casa del “Macchiacin”, c’era un bel prato verde, e in mezzo al prato, un grande noce. “Vedi quel noce?”, disse al nipote, “Eh, sì, perché?”, “Sotto quel noce...”, la voce di Paolo tremò appena, “sotto quel noce facevo l’amore con tua nonna.”



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