domenica 27 agosto 2017

"IO RIPRESI L'AEREO E LASCIAI L'ETIOPIA"

Si tratta di una mia vecchia intervista del 2002; nel frattempo, Giuseppe Calcagno è morto. Sono felice di aver raccolto per tempo la sua testimonianza
Terre d'Africa


Il dipinto, nelle diverse tonalità del colore del cielo, ritraeva uno zingarello che giocava con un bastoncino. Il “maestro” era nel suo “periodo blu” e allo scolaretto, che sostava sognante dinanzi all’opera, chiese: “Il te plait?”   “Oui, maestro” , rispose il bambino. “Italianito?” continuò Picasso e, alla risposta affermativa del piccolo, staccò il quadro dalla parete e glielo donò.  A quella mostra di pittura a Vallauris, Giuseppe Calcagno  era stato accompagnato dagli insegnanti con tutti i bambini della scuola; aveva poco più di dieci anni e viveva in Provenza da quando ne aveva tre. Da quando il padre, socialista convinto, aveva dovuto abbandonare la sua Torino per “incomprensioni” con il regime dell’ Uomo della Provvidenza, come papa Ratti aveva definito un altro ex socialista di Predappio. Lo incontriamo a Cervarezza, nella sua bella villa di foggia alpina, dove si è stabilito da qualche anno con la moglie dopo aver condotto una vita nomade in vari paesi del mondo. Qui ha ricreato un piccolo angolo di terra provenzale, con gli stessi profumi forti della lavanda, del timo, dell’erba limoncina. “Ah la Provenza! – ci racconta – è il paradiso sulla terra! Mio padre lavorava nella compagnia francese dell’alluminio, la Pechiney, e nel villaggio di operai dove abitavamo erano presenti ben 16 nazionalità diverse. Soltanto gli arabi vivevano separati e ad essi erano assegnate le mansioni più pericolose, che comportavano l’uso del cloro. Ne morivano tanti. Noi, invece, stavamo bene. Ricordo che la mamma apparecchiava sempre per qualcuno in più, perché era normale che a tavola si aggiungessero, di volta in volta, socialisti o anarchici italiani. Ai primi di giugno del ’40, quando gli alpini irruppero nel villaggio, li accogliemmo con una grande festa.”  Nel ’43 la famiglia Calcagno rientrò in Italia, ma alla frontiera venne letteralmente spogliata di ogni avere dalla polizia, compreso il ritratto dello zingarello, dono di Pablo Picasso. Cominciò così una lenta e faticosa risalita, fatta di tanto lavoro, sacrifici, intelligenti intuizioni, che permisero a Giuseppe di conseguire un diploma e cominciare un’attività di venditore all’estero per conto di grandi ditte. “L’unico paese dove mi sono fermato soltanto per ventiquattrore è l’Etiopia- continua Giuseppe- erano gli anni ottanta e il mio primo incontro ad Addis Abeba fu con i soldati cubani di Fidel.
Stavano maltrattando dei bimbi che giocavano su un marciapiedi; intervenni chiedendo spiegazioni. Mi aggredirono insultandomi;  io ripresi l’aereo e lasciai l’Etiopia.” I corpi di spedizione cubani, insieme con navi ed aerei dell’Armata Rossa, erano in Etiopia dal ’77 per respingere le offensive del Fronte di liberazione dell’Eritrea (anch’esso marxista- leninista come il regime etiopico) e dell’esercito somalo. Negli anni successivi  la politica dissennata e violenta di Menghistu portò alla completa catastrofe agricola, amplificata dalla siccità, che sprofondò il paese in una miseria inenarrabile. Soltanto “Médicins sans frontières”  ebbe il coraggio di opporsi agli inutili e controproducenti aiuti internazionali, compresi quelli, famosi, della campagna delle rockstar americane, interpreti dell’inno We are the world che, ancora nel 1985, foraggiarono il dittatore lasciando a mani vuote il suo popolo. Ma sono tanti i popoli e i paesi di cui ci narra il signor Giuseppe, e il suo racconto è “affollato” e difficile da dipanare:“ In Afghanistan arrivai per caso, perché in Iran avevo incontrato l’architetto generale della città di Kabul. L’Afghanistan era poverissimo, ma meraviglioso, impressionante per la gentilezza, la pulizia e l’onestà della gente.
Le donne lavoravano e andavano a scuola. Contattai Rahaman Rahime, un impiegato del ministero con il quale dovevo prendere accordi per la costruzione di uno stabilimento di acque minerali. Mi invitò a pranzo a casa sua e lì trovai…i tortelli di erbette! Spiegai che si trattava di un piatto delle nostre zone, mi risposero che era una pietanza tipicamente afghana. Era davvero un luogo splendido,ma l’anno dopo sarebbero arrivati i Russi…” Giuseppe ci spiega che l’unica nota stonata era l’odio tribale, inevitabile in una popolazione composta da Pashtun, Tagichi, Uzbechi, Hazari, Turkmeni, Kirghisi,  Baluci, Aimaq,  Kohistani,  Nuristani, uniti soltanto dall’Islam. I Russi arrivarono nel  dicembre del ’79 con l’operazione “Burrasca 333” e vi restarono fino al 1989, quando si ritirarono, lasciando però sul posto 200.000 soldati  fino al ‘92. Le atrocità commesse dai sovietici furono quelle comuni a tutte le guerre, con l’aggravante che di questo conflitto i mass media non parlavano, come d’altra parte non rendevano pubbliche le  efferatezze che la resistenza afghana, sostenuta dagli Stati Uniti, compiva sulla gente.  In realtà, la “Guerra Fredda” è stata molto calda per  le popolazioni che l’hanno subita. Un altro paese visitato da Giuseppe Calcagno, martoriato e mutilato da ripetuti conflitti, è il Libano: “Vorrei poter tornare nel vecchio Libano…il pane libanese…la cucina favolosa…e la gentilezza delle persone…E’ tutto cambiato ora.” La cucina araba e mediorientale  ha veramente sedotto Giuseppe, che ne parla con un entusiasmo tale da farcene quasi sentire gli aromi e i sapori. In Arabia Saudita, a tavola con i  Paperoni  del petrolio, come Abdallah al Masheish, o in Libia, con Alì el Shangry, amico di Jallud, o ancora in Egitto, dove gli avevano commissionato un progetto per l’imbottigliamento dell’acqua dei faraoni, in un’oasi nella depressione di El Kantara, dice di aver trovato cibi di una prelibatezza straordinaria e irripetibile.  “Ricordo dei filetti di cammello talmente piccanti che pasteggiammo bevendo wischky…”  Alcolici nei paesi dell’islam? “Uh! 
Elicriso
Quanto bevono quegli sceicchi!- ride il signor Calcagno- gli alcolici non si possono commerciare, ma in casa ne hanno armadi strapieni!” Nel salotto della sua bella villa di Cervarezza conserva alcuni souvenir dei suoi viaggi, tra i quali una cavigliera d’argento finemente lavorata a sbalzo. “Una bella ragazza africana me la cedette in cambio di un paio di scarpe, mi capitava spesso di usare il baratto come tecnica di commercio.”  E a proposito di contaminazioni alcoliche europee, ci racconta di aver incontrato in Nigeria, nella foresta, un re, seduto ad un tavolo, nella sua capanna. Sul tavolo, vicino ad un’amarissima noce di cola che il re masticava, c’era una bottiglia di…Campari! Gli chiediamo cosa lo ha condotto sul nostro Appennino. “Rifornivo d’acciaio una ditta di Montecavolo- risponde- e il proprietario mi propose l’acquisto di questa casa. Il clima qui è meraviglioso, simile a quello della Provenza, quindi decisi di fermarmi. Purtroppo i montanari sono chiusi, legare è difficile: ancora oggi io e mia moglie Elsa siamo considerati stranieri.” Nel salutarci ci dona manciate di foglioline di timo e lavanda e poi una poesia, che è quasi il manifesto della sua irruente e contagiosa gioia di vivere: “ Finchè…domani…il profumo della lavanda/ annuncerà al cuore l’estate/ risentirò la felicità/ inebriare il mio cuore/ Avrò ancora i miei vent’anni/ e lo spirito non invecchierà.”

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