martedì 27 settembre 2016

PANE E FRAGOLE - RACCONTO DI RESISTENZA E DI EMIGRAZIONE

Gabriella Garulli con il fratello e i nonni
Gabriella oggi, a Costola di Scurano


Gabriella, Hans e la loro bella famiglia



Era giugno, era caldo e la mamma voleva a tutti i costi farle trangugiare quella minestra dove, in mezzo alle verdure, oscillavano mollicci grumi di lardo. Gabriella si rifiutò, s'impuntò con tutta la determinazione del suo sangue montanaro, afferrò un pezzo di pane e uscì di casa, incespicando in un gradino e ferendosi l'alluce. Strinse i denti e corse via, malgrado il dolore, arrampicandosi fino a un terreno dove sapeva di trovare le fragoline selvatiche. Lo faceva sempre, quando le presentavano la minestra con il battuto di grasso: si metteva in tasca un pezzo di pane e spariva in cerca di frutta. Pane e mele, pane e pere, noci, ciliegie, amarene, uva, nespole, susine, nocciole, fichi, sorbole diventavano il suo pasto. Oltre alla zuppa nel latte la mattina, non mangiava altro ed era magra magra, tuttavia alta, sana, forte. Tanto che la spedivano a pascolare le pecore, quelle che tutte le famiglie di Costola di Scurano, il paesello in provincia di Parma (a pochi chilometri da Vetto d'Enza), dov'era nata nel '35, avevano comprato per superare meglio le privazioni. A turno, i bambini del paese portavano fuori le quaranta pecore della comunità; uscivano presto, all'alba. Gabriella era impaurita dalle bisce e partiva, al buio, senza fare colazione, con la nonna che la rincorreva e le metteva un quadretto di zucchero in tasca: “To', pinina, mangia...”. Il compito era troppo grande; le pecore dovevano tornare a casa sane e salve e lei era solo una bimba. Imparò così che delle proprie azioni si deve sempre saper rispondere senza scaricare colpe sugli altri. Imparò la responsabilità. Quel giorno, dunque, da vera, cosciente ribelle, se ne andò a mangiare fragole e pane, seduta nell'erba. Ed ecco che sentì delle voci, un trambusto, un picchiare di zoccoli sul terreno. Si alzò e si trovò di fronte una specie di carovana: muli e asini con le loro some, accompagnati da una quindicina di personaggi vestiti in modo insolito, con berretti e fazzoletti al collo. Corse via, e il nonno - che di solito stava seduto nell'aia a fumare la pipa, davanti alla porta aperta, in modo da non insospettire i tedeschi che passavano di lì - le disse che quelli erano i “ribelli”. Gabriella, incuriosita, informò subito gli altri bimbi e, insieme, andarono fino a Relendo, dove i “ribelli” s'erano accampati. I ragazzini vennero accolti con simpatia e sorrisi e se ne tornarono con un dono: un panetto da mezzo chilo di burro per uno, burro che i “ribelli” avevano forse requisito in qualche latteria lungo il percorso. Fu così che la casa di Gabriella Garulli divenne sede di un comando partigiano; fu così che lei vide, per la prima volta, una macchina da scrivere. Non sapeva, allora, che avrebbe poi sposato un tipografo, un ragazzo che lavorava nel più importante giornale svizzero... Intanto, era una bimba di otto anni in mezzo a una guerra e, dalla cucina, ascoltava le voci concitate delle riunioni del capo partigiano “Sbaffo”, mentre il partigiano “Tigre”, originario del crinale reggiano, l'aiutava spesso a fare i compiti di matematica; poi c'era “Duilio”, e persino un russo e altri partigiani, forse slavi, comunque stranieri. Lì, nella sua casa, a volte i “ribelli” dormivano, ma la mamma dopo bruciava l'imbottitura del pagliericcio e faceva bollire la fodera, altrimenti ci si sarebbe riempiti di pidocchi, quelli che vivono nelle cuciture. Un giorno, “Sbaffo” (che doveva essere di Ciano D'Enza) ordinò alla mamma di cucinare un coniglio perché avrebbero avuto come ospite un russo molto autorevole; la mamma obbedì e, alla sera, apparecchiò in sala, mentre tutta la famiglia era rimasta in cucina. Davanti al russo, mamma fu obbligata a mangiare un pezzo di carne e bere un po' di vino: volevano accertarsi che non fossero avvelenati. Era sarta, Dirce, perché il nonno – mezzadro, ma d'inverno anche calzolaio che girava a lavorare per i paesi - aveva voluto che l'unica figlia imparasse un mestiere. Era un raccontastorie fantastico, il nonno, e Gabriella sente di aver ereditato da lui il gusto per la narrazione, la lettura, l'ascolto. Dirce s'era sposata a 17 anni e aveva messo al mondo un figlio dopo l'altro, poi, dopo una pausa di diversi anni, era arrivata, imprevista, Gabriella, l'ultima. L'aveva fatta nascere Jusfa, una cugina del papà che non aveva figli e che si era poi occupata di lei e legata a lei come e più di una madre. Dirce aveva troppo da fare per accudire anche quell'ultima nata. Pure Jusfa amava le storie, il racconto. Le metteva in mano dei libri quando ancora Gabriella non sapeva leggere, così, quando la piccola andò a scuola, si lesse tutto il “sillabario” e poi chiese alla maestra di portarle altri libri. In casa, però, bisognava nascondersi per leggere, perché per i grandi era tempo perso: c'era da lavorare, altro che stare seduti con dei libri in mano! Era brava a cucire, mamma Dirce, così i partigiani le portavano i paracadute degli aviolanci, che andavano a raccattare sui monti, e si facevano cucire da lei, con quella seta bianca, le tute per camuffarsi nella neve. Con un paracadute arancione, Dirce confezionò invece un bel vestito a Gabriella. Tutto il materiale dei partigiani, quando si percepiva l'arrivo dei tedeschi, veniva nascosto in un cassone chiuso, collocato sotto il letame della concimaia.
I bimbi di montagna erano più adulti e più seri dei bimbi di città; Gabriella se ne accorse quando, a Costola e dintorni, arrivarono gli sfollati da Milano, Parma, Reggio. Erano ospitati nelle case e qualcuno combinava anche dei guai. Uno dei ragazzi era talmente maleducato che lei lo prese a sassate e, da quel momento, la chiamarono “la friulana”, perché era alta e tosta come le donne friulane, venditrici ambulanti di ciabatte e mercanzia varia che regolarmente passavano da quelle parti. Tra gli sfollati c'era una bimba bellissima, perfettamente abbigliata, con le scarpette di vernice lucide; si chiamava Liliana ed era lì con il fratellino Francis e la famiglia. Venivano da Panama, si erano trovati a Reggio in visita ai parenti ed erano rimasti bloccati lì dalla guerra. Da adulta, Liliana sarebbe poi diventata Miss Panama, mentre Francis tornò a Costola quando Gabriella aveva 17 anni. Si abbracciarono e lui le presentò un amico, bellissimo, di carnagione scura. Insieme passarono un'estate spensierata e quel ragazzo scuro, destinato a diventare un medico, fu il primo, delicato amore di Gabriella. C'era anche una ragazzina ebrea, sfollata, Gisella Levi, probabilmente di Milano. Tutti sapevano che era ebrea, ma nessuno fece la spia. Oggi, Gisella Levi è una degli avvocati più famosi del mondo e vive negli Stati Uniti, pur non avendo dimenticato Scurano e gli amici di quel periodo. Poi la guerra finì e Gabriella rammenta un unico fatto di sangue che coinvolse i partigiani e i tedeschi della Wehrmacht e che portò questi ultimi a piazzare un mitra proprio di fianco alla finestra della sua cucina, sullo spigolo della casa. Quando il tedesco smise di sparare, mamma Dirce si affacciò, lo guardò e gli chiese: “Vuole qualcosa, sta bene? Un bicchiere d'acqua?” Il ragazzo le rispose in italiano: “Signora, non ne posso più di questa guerra, ho quattro figli a casa...” La guerra finì e Gabriella decise di partire, come già avevano fatto alcune sorelle e il fratello. Il padre lavorava alla fabbrica Mutti come macchinista e, d'estate, andava in giro a trebbiare il grano. Era un uomo tutto d'un pezzo, onesto, incapace di scendere a compromessi, tanto che, dopo un'esperienza come assessore, nel dopoguerra, proprio per restare fedele ai suoi forti ideali di sinistra, non accettò mai più cariche politiche. La mattina in cui lei partì, lui l'accompagnò alla corriera a Vetto, mentre il sole compariva appena dietro ai monti. Con la ruvidità tipica dei montanari, le posò una mano sulla spalla e le disse: “Fatti onore”. Non importava che la figlia diventasse ricca, importava l'onore, la rettitudine. Gabriella aveva 19 anni; andò a Milano, prese il treno per Chiasso; in Svizzera l'aspettavano il fratello e la sorella che già le avevano fatto avere un contratto di lavoro in un ristorante. A Chiasso dovette sottostare, in sottoveste, a una meticolosa visita medica: chi non era sano veniva rispedito indietro. Il resto fu lavoro, fatica, ma anche amore, perché nella cantina del ristorante Gabriella incontrò un ragazzo altissimo e secco come un chiodo: Hans Putzengruber, tipografo, che lì era sceso a prendere del materiale. Era austriaco, timido come lei. Per un po' si guardarono e basta, poi uscirono insieme e riuscirono a comunicare grazie a un amico che parlava entrambe le lingue. Si fidanzarono e, nel '57, si sposarono; nel giro di neanche due anni si ritrovarono con due figli: Manuela e Marco. L'entusiasmo e la creatività di Gabriella, il suo senso della giustizia, ereditato dalla famiglia, l'onestà e la serenità di Hans sembra siano passati direttamente ai figli e ai nipoti (Martin, Christina, Leandro) e, forse, chissà, anche al pronipote Marlou (di mamma brasiliana, con avi veneti). Tutte persone, in qualche modo, impegnate nei temi sociali e dell'immigrazione, magari come avvocati; tutti a lottare sempre dalla parte dei più deboli; contro la legge che bloccava l'immigrazione in Svizzera, per esempio, oppure, a Genova, al G8, dove la figlia Manuela, per puro caso, non finì a dormire alla Diaz, dove avvennero quegli orribili fatti. È sempre determinata, Gabriella:“In Svizzera eravamo stranieri, all'inizio, per questo non riuscivamo a trovare una casa in affitto! Si dovrebbe solo vergognare chi oggi se la prende con gli immigrati. La memoria è importante. Per questo voglio ricordare e raccontare.” Sono ancora belli, Hans e Gabriella, con il volto sereno. “Ci siamo sempre accontentati, - dice lui – il superfluo non ci è mai interessato”. Questa, forse, è la vera sapienza della vita.

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