mercoledì 28 settembre 2016

IL VIAGGIO DI UN MIGRANTE "ECONOMICO" - ANTHONY YANKEY SI RACCONTA

Anthony a destra
Si sente spesso parlare di immigrati che arrivano ed io sono uno di loro, mi ritengo molto fortunato ora anche se il mio viaggio è stato molto doloroso. Mi chiamo Anthony Yankey. Vengo dall'ovest del Ghana, da un paesino al confine con la Costa d'Avorio, Aiyinase. Vengo da una famiglia povera, sono l'ultimo di dieci fratelli; quando sono nato mio padre era già amputato ad una gamba, non poteva lavorare per assicurarci una vita dignitosa né per farci studiare. Io, fin da piccolo, ho coltivato il desiderio di studiare per non fare la fine della maggior parte dei miei amici, che trascorrevano le giornate in strada, arrangiandosi per sopravvivere, e che poi così avrebbero continuato a fare anche una volta adulti. Ho iniziato la scuola, ma l'ho dovuta interrompere dopo pochi anni perché la mia famiglia non poteva mantenermi negli studi, così sono andato a lavorare per tre anni in Costa d'Avorio con uno zio, e con lui ho imparato a fare l'orafo. A tredici anni sono ritornato a scuola, dove però venivo preso in giro dai ragazzini più piccoli con i quali ero in classe. A scuola ero bravo e quando rientravo a casa la mamma era molto contenta che riuscissi negli studi, ma allo stesso tempo dispiaciuta per non esser riuscita a fare studiare anche tutti gli altri. Fu un insegnante dei primi anni di scuola che mi mantenne alle superiori; io l'ho sempre considerato come un papà e lo aiutavo nelle faccende domestiche. Il mio sogno era diventare un giornalista che raccontasse le notizie e le condizioni delle persone nelle varie parti del mondo. Per aiutare la mia famiglia, ho insegnato in una scuola privata, ma i soldi rimanevano pochi e altri lavori più vantaggiosi economicamente non si trovavano, quindi ho cominciato a desiderare di andare a lavorare in Libia. Per potermi permettere il viaggio, ho cercato un lavoro più redditizio e sono stato assunto da un benzinaio per alcuni mesi.
Il desiderio di partire per approfondire gli studi non mi ha mai abbandonato, così durante un turno di lavoro, una notte, ho iniziato il mio viaggio, senza avvisare nessuno a casa, ma dopo aver attraversato il confine con il Burkina Faso ho telefonato ad un mio amico dicendogli dove avevo nascosto dei soldi da dare a mia mamma e di avvisarla che ero partito. Era il 2007 e già all'inizio la strada si fece difficile perché l'autista del pullman, che doveva caricare me e tanti altri, dopo aver raccolto i soldi, si è dileguato. Così si è ripresentato il problema di cercare altri soldi e ho trovato lavoro come venditore di acqua. Dopo otto mesi siamo partiti su un pick-up; eravamo in 44, quarantadue uomini e due donne, ma eravamo così stretti che le nostre gambe e braccia avevano perso ogni sensibilità e quando ci si fermava l'autista veniva a muoverci per riattivarci la circolazione. Avevamo con noi un po' di biscotti e farina di manioca. Eravamo ancora in Burkina Faso quando, nel deserto, siamo stati assaliti dai briganti che ci hanno spogliati di quel poco che avevamo, ci hanno lasciato solo acqua ed hanno rapito le due donne di cui non abbiamo più saputo nulla!
Siamo ripartiti e, dopo tre giorni, altri briganti ci hanno rubato tutta l'acqua e il cibo. Dopo aver attraversato Burkina Faso, Mali, Niger, l'autista ci ha lasciati vicino al confine con la Libia dove ci ha indicato due possibilità: o farci guidare dalle luci dei paesi con la certezza che ci avrebbero arrestati ed imprigionati, oppure entrare da una zona buia per evitare le guardie. Dopo tre giorni di cammino senza mangiare né bere ero stanco, sfinito, mi sanguinavano i piedi; insieme ad altri ho deciso di entrare in Libia dalla strada più centrale dove si trovavano le guardie, perché almeno in carcere avremmo avuto pane e acqua. Così è stato, siamo stati condotti in un carcere sotterraneo in cui sono rimasto sei mesi con i miei amici. La vita in carcere era molto dura e se non rispettavi le rigidissime regole eri punito con violenze fisiche o con privazione di cibo. Il carcere era difeso da tre muri di cinta; molto difficile evadere senza la complicità delle guardie. Un giorno, una guardia mi ha chiesto se avevo dei soldi, gli ho risposto che avrei potuto procurarmeli se mi faceva telefonare a casa ad un amico, così ha fatto e mio fratello mi ha mandato i soldi. Una notte, la stessa guardia mi ha aiutato a superare i tre muri, ho attraversato a piedi una zona deserta finché sono arrivato in un paese di nome Brac (che significa nero) e lì un uomo mi ha condotto da un ghanese dal quale mi sono fermato a lavorare per qualche mese; volevo poi spostarmi a Tripoli per lavorare e il ghanese mi ha organizzato un viaggio su un pick-up coperto pieno di clandestini.
A Tripoli ho fatto il muratore per un anno e mezzo e, per un altro anno e mezzo, ho riempito bombole di gas; in Libia ci sono tante persone provenienti dai vari paesi dell'Africa, lavorano tutti, rimanendo in clandestinità, sempre nascosti nel luogo di lavoro o nell'abitazione, perché se ti trovano in giro sei arrestato. Nel frattempo è arrivato il 2011 ed è scoppiata la guerra: i militari cominciano a distruggere tutto, campi, negozi, non si trova né cibo né benzina. Io rimango chiuso nella mia stanza di lavoro e vivo lì finché un giorno il mio padrone mi riferisce che il presidente Gheddafi sta organizzando alcuni viaggi verso l'Europa, allora decido di partire ed il 9 giugno mi metto in mare. Siamo in 400 sulla barca; è una barca sicura, guidata da un equipaggio esperto, poiché organizzata dal governo, non come quelle che partiranno successivamente guidate da scafisti senza scrupoli. L'11 giugno arrivo a Lampedusa, dopo più di 4 anni dalla partenza da casa; dopo essere stato registrato sono subito stato portato a Bari per due settimane, poi a Bologna. Da lì siamo saliti a Cervarezza in dieci, dove ci siamo sentiti abbandonati, senza alcuna informazione sul nostro futuro. Dopo un mese, in cinque siamo stati trasferiti in albergo a Casina da Piera che, invece, ci ha accolti come una mamma e da cui siamo rimasti otto mesi. Abbiamo conosciuto alcuni giovani che ci hanno informati della presenza della scuola di italiano, così abbiamo iniziato a frequentarla. L'insegnante, Normanna, è stata per noi molto preziosa. Quando incontravamo le persone per strada salutavamo, ma spesso non eravamo ricambiati e questo era per noi fonte di disagio e amarezza. La cooperativa “L'Ovile”, che gestiva il nostro programma di inserimento come profughi nel territorio della montagna, ci ha fatto conoscere Mohammed, un mediatore culturale, che ci ha ulteriormente aiutati ad approfondire la conoscenza del luogo che abitiamo e delle sue opportunità; con lui abbiamo iniziato a rendere abitabile e ad arredare l'appartamento in cui tuttora viviamo a Felina, nella casa all'interno dei vivaio “Pratolungo”. Arrivato qui, dopo un viaggio doloroso e travagliato, ho trovato una sede definitiva che mi ha permesso di iniziare a pensare al mio futuro, così ho iniziato il percorso scolastico, conseguendo il diploma elementare e medie e mi sono iscritto al corso “Iodi” dei servizi sociali serale. Per mantenermi economicamente, contemporaneamente ho lavorato per 8 mesi in un'azienda agricola a Coliolla di Carpineti, che raggiungevo in bicicletta. La scuola prevedeva uno stage lavorativo: mi hanno mandato alla Casa di riposo “Villa Paola” dove mi è stato proposto di lavorare come addetto ai servizi di pulizie; ho accettato molto volentieri perché era molto più comodo che il lavoro precedente, soprattutto perché potevo utilizzare i mezzi pubblici. Nel frattempo ho utilizzato i miei stipendi per conseguire la patente di guida e riuscire ad avere maggiore autonomia negli spostamenti. A Villa Paola ho sentito il calore delle persone, sia degli operatori che degli ospiti e mi sono sentito utile nel mio lavoro; così ha cominciato a farsi spazio in me l'idea che la mia realizzazione professionale potesse essere nell'assistenza alle persone in difficoltà. Appena ho avuto la possibilità con il riconoscimento dello status di rifugiato, sono tornato in Ghana, così come ero partito, senza avvisare nessuno. L'incontro con mia mamma è stato ricco di stupore, meraviglia e incredulità; purtroppo, nel frattempo era morto mio papà, già gravemente ammalato ed il fratello maggiore per una banale infezione che qui avrebbe potuto curare.
Ho visto negli occhi di mia mamma la gioia ed è anche per lei se continuo a vivere con grande determinazione e speranza, impegnandomi nello studio e nel lavoro. Il mio sogno è di diventare infermiere, quindi la strada è ancora lunga, ma ora mi sento tranquillo perché sto lavorando, ho un'abitazione e ho la possibilità di proseguire gli studi. Ora il mio sogno iniziale di diventare giornalista è un po' sfumato... ma continuano ad appassionarmi le notizie di attualità dal mondo e mi piacerebbe fare qualcosa per portare un cambiamento, per migliorare questo mondo. Mi sono presentato a voi perché quando mi vedete in paese non siate spaventati o diffidenti: è comprensibile se non ci si conosce, ma ora mi conoscete ed io mi sento bene in questo luogo e ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutato.
Come ho già detto all'inizio, mi sento fortunato, soprattutto se penso alle migliaia di immigrati che stanno arrivando ora in mano a criminali. Capisco il desiderio di migliorare la propria condizione e quindi il desiderio di uscire da guerra e povertà (come ho fatto anch'io), ma la cosa migliore sarebbe essere aiutati nei propri paesi.
(Antony Yankey)  

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