domenica 21 dicembre 2014

LA BAMBINA E' TORNATA - RACCONTO

La bambina è tornata


Chove, chuva chuverando/ lava a rua do meu bem...” Il cielo color cenere di Salvador, di un bigio vivace, increspato, delicato e tenero come la fragranza e la mollezza della terra umida, è scucito e si spalanca in uno spicchio turchino sulla linea del tramonto. “Scendi, pioggia a catinelle/ lava la strada del mio ben...” intonano i bambini in girotondo nella prima pagina di un romanzo di Jorge Amado, lo scrittore simbolo della Bahía. Nel cuore di Maria, quell’immagine è la più genuina rappresentazione della bellezza innocente, colorata, dolce e sensuale di quel paese. Una grazia che sente sua, lei, piccola e minuta, i grandi occhi neri e il sorriso delizioso a illuminarla. Lei, che potrebbe essere un personaggio di Dona Flor e i suoi due mariti, Gabriella garofano e cannella, Teresa Batista stanca di guerra. Le hanno sempre detto che somiglia così tanto, ma così tanto a Sonia Braga, l’attrice più cara allo scrittore. Come era arrivata sull’Appennino, lei, così nera di capelli e di pelle? Una storia lunga. Maria ci ripensava, qualche anno prima; passeggiava sotto i portici di Bologna, a due passi dall’Università, e ci ripensava. L’aveva sempre saputo, era cosa normale. La mamma aveva sempre risposto alle sue domande. L’aveva sempre saputo. In ogni modo, verso i diciassette anni, aveva cominciato a sentire quel profondo desiderio. Incontenibile. Era scoppiato tutto a Parigi, a casa del cugino Emanuele. Li aveva ascoltati, lui e la moglie straniera, Celia, parlare in quella dolce, musicale lingua e qualcosa le si era acceso dentro. Un fuoco. Incontenibile, furioso, malinconico: “saudade”! Era tornata a casa, ma quel fuoco bruciava, bruciava. “Saudade”! Sì, l’aveva sempre saputo che era stata adottata, ma la voglia di scoprire di quale carne e sangue fosse realmente impastata ora si faceva sempre più grande, insopportabile. Basta, doveva partire, varcare l’Oceano. Certo, Maria aveva ascoltato i racconti della mamma riguardo alla sua nascita e alla sua adozione; una storia bella e amara allo stesso tempo, con un sottofondo di mistero. Quella zia suora, sorella del padre adottivo, un giorno, di là dall’Oceano, aveva raccolto la confessione di una signora che le aveva riferito delle difficoltà di una ragazzina incinta. La suora e la giovane con la pancia grossa grossa, stretta in una maglietta striminzita, si erano poi trovate per caso sull’autobus e l’adolescente aveva manifestato il desiderio di portare avanti una gravidanza che, invece, “qualcuno” non approvava. Perché?
La suora aveva raccontato che non si trattava della solita storia di indigenza, di famiglia disgregata, di violenza. Allora, quale poteva essere stato il motivo? Perché l’avevano abbandonata?
Intanto, in Italia, una famiglia aveva inoltrato domanda di adozione e, a un mese dalla nascita, Maria aveva già respirato l’aria leggera dei monti italiani. Bruciava dentro, però, la saudade; bruciava un sordo richiamo di sangue. Partì, al fine, partì. Doveva incontrarla: lei, la ragazzina dalla pancia grossa grossa nella maglia troppo stretta.
Ma quanto è bello il cielo del Brasile? Quanta luce in più? Quanto è vasto, profondo, immenso? Maria è in quel luogo da una settimana, dovrebbe essere felice, dovrebbe sentire il cuore aprirsi al sollievo e svuotarsi da quel fuoco che brucia, invece no. Tutto le dà fastidio, perché tutto è diverso dall’Italia, tutto è giù di posto, non funziona niente! Non funziona la doccia, spesso non c’è acqua, quella calda poi non se ne parla. E le file interminabili ovunque, e gli autobus in ritardo... in ritardo? Macchè: non hanno proprio orario! Normale, poi, imbattersi in un pullman affondato per metà in un’enorme buca colma d’acqua in mezzo alla strada, con i passeggeri che scendono e non ci fanno una piega. E poi la gente che ti parla, che non ti ignora mai. Non riesce a passare in mezzo alla folla senza che qualcuno la interpelli. La credono una di loro: pelle e volto bahiano, niente da fare. Non li sopporta. Alla fermata dell’autobus, si accende una sigaretta: ‘Figlia mia, non fumare, ti fa male!’, le fa una vecchietta con l’aria di soffrire per lei. Basta. Questo occuparsi continuamente l’uno dell’altro la innervosisce. Sbotta, la manda a quel paese e lei: ‘Come sei nervosa! Non essere nervosa!’. Accidenti! Vivere nello scompiglio, nel disordine, e poi quell’indolenza e  disorganizzazione che la sua educazione occidentale, la sua precisione ed efficienza emiliane rigettano con tutte le forze! Mio Dio: perché era venuta in Brasile?

sabato 20 dicembre 2014

A NOVECENTO ANNI DALLA MORTE DI MATILDE DI CANOSSA, DONNA D'EUROPA

A novecento anni dalla morte di Matilde  


12-12-2014 / LA NOSTRA STORIA / NORMANNA ALBERTINI
REGGIO EMILIA, 12 dicembre - Il melograno sta lì, giusto prima di incamminarsi per lo sperone roccioso dove resistono poche vestigia del castello. Certo, la pianta non risale all’anno Mille, agli anni di Matilde: è alberello giovane, di vivaio. Il melograno, anzi, il suo frutto, è però legato al luogo, essendo diventato, nei secoli, il simbolo di quella grande donna che con una melagrana in mano – dorata, spaccata a mostrare i chicchi rosso rubino – è spesso raffigurata nelle pitture.
Biondo frutto, tenace e fulvo come la contessa e, allo stesso tempo, come lei simbolo di fecondità, ingengo e passione che rendono produttive e fiorenti le terre insieme ai popoli che le abitano. Bisogna venirci, a Canossa, per capire fino in fondo quanto la forza, la personalità, il coraggio e il fascino di questa donna siano ancora tutt’uno con il paesaggio, con le colline flessuose, sensuali, digradanti fino al fiume Enza e alla pianura; con le Alpi, lontane, a Nord, bianche di neve; con i boschi e i monti che, a Sud, salgono verso la magnificenza della rupe di Bismantova e il ventaglio del crinale appenninico.
Territori profondamente marcati dallo spirito di questa “domina” che, nel fluire tormentato dei secoli, pare aver lasciato in eredità la sua energia, incisa a fondo nelle linee e negli spazi geografici ma anche nel carattere orgoglioso e intraprendente delle sue genti.
Illuminata donna, immensa per potere e influenza politica, Matilde di Toscana fu la prima persona di sesso femminile a essere seppellita nella Basilica di San Pietro in Vaticano, proprio vicino, ora, alla Pietà di Michelangelo.
Dopo di lei, in Basilica vennero tumulate la regina Cristina di SveziaMaria Clementina, regina di Inghilterra e Carlotta, regina di Cipro, morta in esilio a Roma.
Matilde non era comunque di origini emiliane, aveva, anzi, sicure e resistenti radici lucchesi per parte di padre, tanto che perfino la Garfagnana può aver fatto parte del ricco patrimonio di quel suo misterioso avo: Sigifredo di Lucca.
Era infatti, la contessa Matilde, pronipote proprio del conte Sigifredo Atto: un Longobardo, un discendente dei Winnili. Biondi e rossi, dalle lunghe chiome, erano scesi in Italia e avevano mischiato i loro caratteri nordici a quelli degli altri popoli già presenti nella penisola, diventando parte del miscuglio incredibile che costituisce oggi la bella “diversità” italica.
Nella prima fase della loro discesa in Italia, i Longobardi, dopo aver dilagato nella pianura padana senza incontrare una resistenza organizzata, erano entrati nella Tuscia dove avevano occupato Lucca, attorno al 572.
Intorno alla prima metà del secolo X, Sigifredo, il nobile longobardo avo di Matilde, abbandonò Lucca, probabilmente in seguito a sconvolgimenti politici non ancora del tutto spiegati, e decise di acquistare delle terre nella località di Vilinianum (presso Parma) dove collocare la propria stirpe.
Cominciò così, dunque, l’avventura dei Canossa, poi proseguita con il figlio di Sigifredo, Adalberto Atto e la moglie Ildebranda. Dell’altro suo figlio, Gerardo, ci sono pochissime notizie, mentre molto citato è Adalberto, che terrà il regno fino alla propria morte nel 988.
Matilde nacque dunque dal marchese Bonifacio di Toscana, per l’appartenenza materna, faceva parte della casata Lotaringia, ed era dunque cugina dell’Imperatore.
Famose le sue abilità diplomatiche fondamentali perché il Papato fortificasse il suo potere e perché l’Imperatore Enrico IV gli si prostrasse davanti, potere che in quel momento era rappresentato da papa Gregorio VII, il grande Ildebrando di Soana.
L’allargamento dei domini attonidi, iniziato con Adalberto, era proseguito con Bonifacio, e culminò con Matilde, per poi conoscere un improvviso declino.
I suoi possedimenti, posti tra la pianura Padana e l’Italia centrale, per un certo periodo disegnarono una eventualità di ampliamento statuale, superando le divisioni politiche della penisola.
Ma ciò non avvenne: Matilde non fece l’Italia, tuttavia la sua influenza, soprattutto al centro-nord, si fece sentire, e molto.

PRESENTAZIONE DEL LIBRO "IL SAPERE PICCOLO" - FOYER DEL TEATRO BISMANTOVA

Prefazione

di Ameya Gabriella Canovi


“Aspetta che sparecchio e poi accendo il computer”, mi dice.
Normanna è prima una donna poi una scrittrice che sa. Sa prima di tutto fare un sacco di cose, poi conosce anche. Quella conoscenza autentica, di chi va in fondo. E sa usare la testa e le mani, passando anche dalle parti del cuore. Le usa senza risparmio le mani, nella vita e nello scrivere.
Sa ricamare con le parole, ricordare e raccontare.
C’è un filo in questi racconti, c’è una storia. In “Sulle spalle delle donne” c’erano occhi bambini che ricordavano. In questa raccolta la narratrice ha uno sguardo cresciuto, profondo a tratti dolente.
Parla in modo piccolo, di piccole cose al microscopio che poi si aprono e diventano la Storia, quella seria, che si fa inevitabile testimonianza sociale e culturale.
L’io narrante diventa adulto e porta con sé quel mondo intero che via via si fa macro. Si continuano i racconti della vita in Appennino dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Di quella società abituata al senza e al poco. Si faceva senza di tanto. E quello che c’era ognuno se lo costruiva. Con le mani.
E con l’ingegno semplice.
Se nella raccolta precedente gli oggetti diventavano personaggi, in questa prosecuzione quegli occhi che guardavano alle cose diventano riflessivi. E accanto al signor maiale Berto, ai norcini, al cibo buono e raccolto con le mani, compaiono la guerra, la migrazione, le balie che per miseria abbandonano i figli neonati per nutrire figli altrui. Gente nomade per necessità, gente che andava via con nel cuore i fianchi larghi del manto dei propri monti. E quelli che restavano mandavano avanti la vita rimanendo.
L’allegria e la spensieratezza sono ora affiancati da una consapevolezza, anzi da un sapere. Quel tipo di vita ti struttura, diventa la tua ossatura, te la porti. Sai arrangiarti e costruirti l’esistenza, e sopravvivere non importa cosa ti succeda. In sottofondo la fatica, la miseria e la guerra inspiegabile per occhi che non sono ancora grandi, ma già capiscono senza parole.
E ci sono i dolori di amori interrotti, le mondine che portavano a casa, oltre al riso strappato col sangue, anche figli di uomini incuranti e altrove, altrove nello spazio, assenti a loro stessi. E le lacrime asciutte dei bambini che restano e delle madri in prestito. E soldati ammazzati e tedeschi e gente attonita, incredula che tace e sa.
Una generazione di gente che stava dritta, che andava anche lontano da casa portandosi dentro quel mondo di mani e saperi piccoli, di sapori rimpianti.
Che conosco anche io, dai racconti di Merina, mia madre. Emigrata, ma poi ritornata.
C’era chi andava di continuo in quella società. Andava in guerra, andava in risaia, andava a balia, andava per serva, andava in America.  Merina aveva scelto l’America del sud, e si era portata dietro e dentro quei saperi, cercando dove si poteva i sapori di casa. Le castagne c’erano, nei suoi ricordi, la saracca con la polenta, e anche il savurett. C’erano la fame, il senza.
A quei tempi lì sia chi restava sia chi migrava aveva una qualità: sapeva. Affrontava, superava, aveva una forza dentro che qualcuno ha chiamato resistenza, che ora si dice resilienza. Che a sentire loro bisognava essere così, non c’era scelta. Non ci si poteva permettere di soccombere, di crogiolarsi nei problemi. Si andava avanti, col vento in faccia.
C’era la nostalgia di casa, c’era il senso del lontano ma di vicino. L’obbligo scolastico fino a nove anni non ha impedito a chi è andato di crescere, perché aveva con sé quel sapere piccolo, che li accompagnava sulla nuova via. Chi è rimasto, chi invece no. Tutti hanno condiviso un patrimonio di esperienze comuni, qui sapientemente rievocato, minuziosamente.
L’uso degli aggettivi provoca i cinque sensi del lettore: rumori, colori, odori, sapori. Mentre si legge di frutti antichi e carbelle acerbe, così abilmente ricordati, la bocca si allappa davvero.
E come in un documentario si rivivono anche gi odori delle bucce di  mandarino sulla stufa, il rumore dei cerchi della stufa a legna, le prime automobili, le minigonne degli anni Settanta. Un racconto globale di un mondo contenuto, descritto fino a quell’attimo appena prima del tanto che poi sarebbe esploso dal Settanta in poi.
La narrazione resta nel prima, volutamente. Prima che il troppo storpiasse. Si ferma in tempo, quando ancora tutti si stava in piedi, con dignità, quando si stava senza. Si era pieni ugualmente.
Di soddisfazione che quel senso di sapere dava. Di rispetto per sé e le cose.
Di viaggiatori coraggiosi, di gente che sta dritta comunque.