lunedì 27 gennaio 2014

DAL MIO ROMANZO "SHEMAL", CHIMIENTI EDITORE, 2004

Capit. 2



LA PESTE ERETICA

Il profumo intenso della vita nei campi gialli di tarassaco. La primavera è vita tenace, che rinasce e tracima e inonda e offende. Il profumo, nel vento violento d’aprile, è dei fiori, dell’erba, della terra bagnata. È pieno e sensuale, pungente e selvatico, insistente. La vita è vita e fluisce, scorre, importuna e dà scandalo. Non si può reggere all’insistenza del suo risorgere, quando allaga i campi, i boschi, le acque, i corpi. Fermarla, bisogna fermarla. O, perlomeno, si dovrebbe educarla.
Nel buio della prigione Elvira ha gli occhi chiusi. La cella è un pozzo umido e maleodorante, lontano dalla luce e dal vento di quei primi giorni d’aprile; un tunnel per l’inferno. Elvira ha gli occhi chiusi, i polsi e le caviglie stretti nei ferri, piagati e sanguinanti. Il terrore che la pervade le paralizza i pensieri, scindendo la mente dal corpo, squartandole l’anima e riducendola a brandelli. Elvira non si percepisce: non ha più carne, spirito, cervello, non riesce ad aprire gli occhi, a muovere le braccia, le gambe, a parlare, gridare, piangere.
L’hanno rivestita? L’avranno rivestita? In ginocchio aveva implorato i suoi torturatori di spiegarle cosa volevano che confessasse. Quieti, paterni, come si conviene a chi opera in nome di Dio per la salvezza delle anime, si erano limitati a suggerirle di dichiarare la verità, perché conosceva bene il suo peccato, Elvira del Campo, o se lo conosceva! N'erano certi, i due domenicani, e sapevano che non avrebbe tardato a rivelarlo in tutta la sua sozzura. Bastavano pochi giorni di garrotta e strappado.
In fondo, la vita è così insolente e scandalosa che va per forza rieducata; il Signore Dio non può essere lasciato solo a combattere contro il peccato di questa sua creazione così imperfetta, va aiutato e consigliato, perché, a volte, sembra quasi non rendersi conto di quante brutture gli siano sfuggite di mano il sesto giorno.
Non l’hanno rivestita; sente appena il calore di un rivolo di sangue che, dal collo, le cola giù, sul seno. Sente il freddo del muro sulla schiena. L’umiliazione della propria nudità violata è talmente dolorosa che la scuote dal torpore e le consente di riprendere, almeno parzialmente, il controllo del proprio corpo.
Le zaraguelles, i panni delle vergogne, almeno quelle gliele hanno messe. Anche a Cristo coprono le parti intime con un cencio bianco, quando lo raffigurano negli affreschi e nei quadri. Possibile che i boia romani si dessero la briga di usare tanto pudore con i condannati a morte simili a Gesù, sobillatori del popolo, contestatori, pericolosi per la stabilità dell’Impero?

giovedì 2 gennaio 2014

SCENDEVAMO A VILLABERZA -IL MONTE BATTUTA CHE UNIVA


Il Monte Battuta che univa. I sentieri e le carraie di un tempo, oggi recuperati dal Cai; la cattura degli uccellini con le panie. Con un ricordo di don Walter Aldini e don Battista Zini.

Chiesa parrocchiale di Villaberza
Mia nonna Jusfina (anzi: la mia bisnonna), afferrava gli anelli di legno della borsa di stoffa nera, si legava per bene il fazzoletto sulla nuca, incrociava lo scialle di lana sul petto, se era freddo, fermandolo con l’immancabile grembiule – che con il cappotto e con le giacche non ci andava d’accordo - poi ci chiamava e via. Si partiva per la bottega.
Da Predolo, proprio nel mezzo dell’aia, correva giù, a quei tempi, una carraia comoda a sufficienza per il movimento dei carri, cioè dei birocci trainati dalle vacche.
Scendeva verso Villaberza (che era un paese vero, mica due case in croce come Predolo), dove c’erano la chiesa parrocchiale, il bar dell’Irene e la bottega di Malagoli.
Perché, se si voleva andare alla bottega, da Soraggio e da Predolo era necessario andare a piedi fino al Fariolo, da quella dei Santi, o a Roncroffio; Gombio era assurdamente distante, però aveva la “cooperativa” (bar e rivendita di alimentari vari che io pensavo si chiamasse “comperativa”) e la “palta”, dove si potevano acquistare i francobolli e il tabacco.
Gombio, come il Fariolo, aveva pure la fiera una volta all’anno – tre bancarelle in croce, ma anche il “calcinculo”, credo di ricordare, quella giostra su cui, per paura, non sono mai salita - tuttavia era davvero impegnativo camminare fino laggiù.
Così, a Gombio ci andavo soltanto a scuola e a messa, affrettandomi dietro al passo svelto di mio nonno Carlo (che piuttosto che mancare alle funzioni religiose lasciava bagnare il fieno nei campi), ed era già un bel camminare.
Scendevamo a Villaberza, dunque, io e mio zio Giuseppe (bimbo come me) con la nonna, saltellando su è giù per le scarpate, che non eravamo mai stanchi; sorpassavamo la fontana del “Pusùn” (il pozzone), dove le donne di Predolo, della Scasola, della Bocca e della Battuta sciacquavano i panni e attingevano l’acqua potabile e, superato il Casotto, finivamo alla chiesa; poi giù, fino alla bottega.
In quella chiesa, i miei genitori si erano sposati. Li aveva uniti in matrimonio don Battista Zini, che più avanti mi aveva battezzata.
Davanti alla chiesa, all'uscita da messa; anni Settanta
Trovavo affascinante quella chiesa, con il buffo campanile basso basso lì davanti, tanto basso che potevo toccare le campane, le due abitazioni dei mezzadri un tutt’uno con l’edificio sacro, il monte dietro rivestito di campi lavorati, ripido e spelacchiato, e un grande spazio verde aperto sul davanti.
Aveva qualcosa di incantato. Bello, il luogo: esposto a mezzodì, assolato e rigoglioso.
Perfino il cimitero, lì a due passi, pareva allegro, forse a causa del sole che lo riscaldava per buona parte del giorno e dell’anno.
Io non ho conosciuto don Battista Zini, o forse non lo ricordo, ma nei racconti di mio padre è una figura talmente viva che mi pare familiare. Un bel tipo.

mercoledì 1 gennaio 2014

DA "NOVE GALLINE E UN GALLO - RACCONTI E RICETTE TRA SECCHIA E CROSTOLO"

Rosalba, anzi, no: Rosa Maria. O forse solo Rosa.

Pare che tutto ciò abbiamo intorno - e che siamo - sia soltanto un inganno della mente; un’illusione perenne, un errore di percezione. Pare che ciò che comprendiamo con i sensi non corrisponda a quello che è; come quando osserviamo il cielo, dove le stelle ci appaiono come modeste luminarie di Natale, mentre, al contrario, ognuna è un sole. Pertanto, noi non possiamo vedere tutto, non conosciamo tutto: né l’infinitamente piccolo, né l’infinitamente grande.
In ogni modo, cosa sarebbe l’oggetto di quest’inganno cosmico? Cos’è che, del Creato, ci rimane nascosto? Particelle non identificate, cioè “materia oscura”, come la definiscono i fisici?
Pare che i cervelloni che frequentano e studiano l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande ne abbiano dimostrazioni: dai suoi effetti gravitazionali sulle galassie, le stelle e i pianeti, per esempio.
Certo che vivere in un universo che è, se non altro per metà - o forse più, - impenetrabile e oscuro, significa vivere in un mondo e in un tempo davvero senza confini, illimitato, dove sussisterebbero illimitate alternative di mondi.
Mia figlia Anna in Secchia con suo padre
Io non so cosa sia la “materia oscura”, ma mi piace pensare che sia l’amore, l’essenza stessa del Creatore, chiunque esso sia. Materia oscura come altra faccia dell’universo, spazio tempo in cui, prima o poi, torniamo tutti a nasconderci. E penso che i bambini (i figli, per esempio), arrivino da lì e conservino, per un po’, la scienza segreta e la potenza di quella dimensione.
L’ho pensato quando ho avuto tra le braccia per la prima volta mio figlio appena nato; un piccolo, meraviglioso prodigio, bello, buono e vivo come il pane in lievitazione. Materia cosmica e divina.
Forse perché vengono da là, i neonati, laggiù o lassù dove la materia oscura dà forma a mondi paralleli, non hanno paura di nulla; essi sanno più di noi quanto l’universo ci sia madre.
Si affidano a noi, si affidano al Creato tutto. Mia figlia, per esempio.

Come vedeva una pozza d’acqua, la streghetta ci si tuffava. Non era una bambina: era un pesce, o forse una ranocchietta; sta di fatto che, quando si andava al fiume, si doveva sorvegliarla senza sosta e riacciuffarla velocemente, appena spariva a faccia in giù nell’acqua.
E aveva sì e no due anni, la streghetta; anche uno, le prime volte che scendevamo al fiume Secchia, ma poi dovemmo limitarci, perché quella, quasi stesse morendo di fame, afferrava belle manciate di sabbia e se le metteva in bocca, tutta felice. Che dire: era fatta così.Veniva dalla materia oscura dove facilmente anche la sabbia era nutrimento.
Forse, in un’altra vita, o in quello spazio sconosciuto dell’universo, la mia figliola era stata una creatura marina, o di fiume o di lago. Trovava gustosa la sabbia e l’apnea le risultava naturale, quasi avesse ancora il cordone ombelicale a ossigenarla.