martedì 27 novembre 2012

SULLE SPALLE DELLE DONNE - Memorie di una bambina di campagna

Il mio nuovo libro in uscita
Quando questo scritto è nato, c’era la neve. 
«Perché non scrivi qualcosa sulla vita di tanto tempo fa?»
 A volte le magie avvengono così, nascono dalla semplicità, da due chiacchiere e un invito. A chi ha tante storie conservate dentro basta una richiesta e ne scaturisce un dono.
Questi racconti si susseguono come le stagioni, cadenzati dal ritmo della quotidianità di una vita nemmeno tanto lontana: l’io narrante è l’autrice che torna agli anni dell’infanzia con gli occhi da grande e li rivive, riassaporandone i colori, le sfumature, i luoghi, le voci.
È  una narrazione corale da cui sgorga una cultura contadina appenninica con gerarchie precise: la nonna Eva, il nonno Carlo, i vicini di casa, i mezzadri, i raccolti, i prati , i boschi.
Una moltitudine di personaggi concreti si stagliano ben definiti nell’affresco contadino. Uno spaccato micro sociale co-costruito, direbbe Jerome Bruner, dove i più grandi tengono come una impalcatura quelli che crescono e di loro si fidano.
Questo raccontare è un viaggio nel tempo, un percorso a ritroso che fa emergere un codice degli affetti, delle cose e della gente. Le trame diventano quadri della memoria dove con minuzia l’autrice racconta partendo dal piccolo per arrivare al tutto: un mondo portato spesso sulle spalle di donne che coltivano la vita.
Mani femminili ruvide di lavoro affondano nell’acqua gelata, impastano, nutrono, allevano e accarezzano.
I bambini, guardati dalla scrittrice bambina, sono come lei apprendisti che imparano, partecipano, condividono valori e lavoro.
Attraverso le pratiche quotidiane, l’autrice fa una mappatura del mondo interno ed esterno dei protagonisti che animano le storie, indagandone emozioni, credenze, vissuti.
In questo viaggio nelle stanze dei ricordi si affacciano tanti volti, tra cui gli elementi della natura che si animano di una vitalità propria: la neve, il vino, i funghi, le castagne, la polenta, la scodella del latte col pane fatto in casa, la credenza con la marmellata, il natale, i tortellini di castagna.
Il dialetto.
Perché certi accorgimenti e diciture sono propri di quella cultura emiliana e come tali godono di una anima propria, di una identità specifica e non si possono tradurre, pena lo snaturarli.
Il lettore si troverà immerso e catturato in un microcosmo intessuto a mosaico, dove ogni attore ha un suo ruolo e la campagna come palcoscenico. Chi legge diverrà partecipe delle vicende raccontate, accompagnato dalla regia dell’autrice bambina, camminando con lei in questa ricostruzione.
La costruzione narrativa di questo scritto ha varie valenze: intanto di essere testimonianza storica. Essa diventa patrimonio collettivo dove chi c’era si riconosce, e chi è venuto dopo ha sentito raccontare. Come una ricercatrice culturale etnografica, l’autrice bambina conduce il lettore in un museo degli affetti e delle storie che rivive in ogni particolare tratteggiato. La trama diventa archeologia psico-sociale del ricordo, impianto emotivo del vivere comune, di gente umile e altrettanto densa di dignità. Fino al racconto finale dove si apre uno squarcio più ampio e dalla terra si passa alla guerra. Inoltre, il testo diventa occasione per significare e risignificare un “allora” con gli occhi di adesso, pieni di ammirazione e gratitudine.
Ogni parola di questo libro è frutto del ricordo. L’autrice con naturalezza e sinestesia traccia un ritratto autentico tale da far rivivere a chi legge un momento vero, epifanico.  A volte, prevalgono i colori, altre i sapori, suoni e rumori della campagna abitata e lavorata. In altri racconti prevalgono odori, ruvidità e una fatica “sulle spalle delle donne”. In sottofondo, calore, dolcezza, radici.
Ne risulta una sinfonia di volti che tengono vivo un sapere trasmesso con tanti fatti e poche parole. Che arrivano dritte al cuore.

(Ameya Gabriella Canovi)

mercoledì 21 novembre 2012

LA SOCIETA' DELLA DISCORDIA - DI FEDERICO ZANNONI - Recensione

Questo è il tempo in cui si ha paura della differenza di opinioni. Che poi è una conseguenza del manicheismo istillato, nelle persone più fragili, ma un po’ in tutti, dall’uso (abuso?) di piattaforme come facebook, oltre che da decenni di televisione spazzatura. In rete, si può bloccare chi non la pensa come te, mandare a quel paese chi ha detto qualcosa che non ti va a genio. In rete, spesso, ci si racconta e ci si relaziona solo attraverso insinuazioni e ingiurie. In altro modo, non si può esprimere una disapprovazione che viene subito capita come fosse un’offesa, quando, invece, è solo un tentativo di discussione. Dalla rete e dai litigi televisivi, la non comunicazione, la non relazione si è riversata nella vita reale. Questo è il tempo in cui, invece di socializzare, l’indolenza e l’inettitudine all’iniziativa divengono la ragione per cui si chiede un azzeramento delle opinioni, il famoso “reset”, agli altri. E in questa parola, azzeramento/reset, è nascosta tanta violenza. Se vuoi stare con me… se dici di pensarla come me… se mi vuoi bene... devi “resettare”, non essere più tu, ma aderire completamente a quel che io penso. Il castelnovese Federico Zannoni, dottorando in Pedagogia nel Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, ha trattato esaurientemente queste tematiche nel volume “La società della discordia – Prospettive pedagogiche per la mediazione e la gestione dei conflitti”. Già nelle sue altre pubblicazioni, Zannoni aveva esaminato approfonditamente gli  argomenti degli stereotipi e dei pregiudizi etnici in età adulta ed evolutiva; si era occupato dei figli degli immigrati, della conflittualità e mediazione sociale, delle dinamiche di scontro e convivenza tra culture e religioni differenti nei contesti urbani, dei minori stranieri a scuola. “Viviamo nella società della discordia. – dice Zannoni nell’introduzione - Spesso fatichiamo a gestire l’aggressività perfino all’interno delle relazioni con chi ci sta accanto. Siamo vulnerabili all’odio; guerre e violenze ci lasciano talvolta insensibili. Esistiamo in un individualismo crescente. Disorientati dal disordine e dall’imprevedibilità delle risposte, ricorriamo alla sopraffazione per perseguire i nostri obiettivi e soddisfare i nostri intenti. Non sappiamo condividere, comunicare, capirci, venirci incontro. Eppure, il conflitto è parte di noi. Se gestito con saggezza, può rivelarsi motore di cambiamento e progresso. L’idea del libro, Federico Zannoni l’ha avuta qualche anno fa e ne ha parlato con Antonio Genovese, professore ordinario di Pedagogia interculturale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, che si occupa d’interculturalità, dei processi migratori e delle loro ripercussioni sui fatti educativi e sociali. Uno dei tanti libri del professor Genovese, scritto con la moglie, Mariagrazia Contini, è “Impegno e conflitto – Saggi di pedagogia problematicista”, quindi il lavoro di Federico si inseriva in un cammino già tracciato e in cui si sente il bisogno di trovare risposte. “È importante analizzare le dinamiche psicologiche, sociologiche, economiche, antropologiche, politiche, filosofiche, biologiche ed etologiche contenute nelle realtà conflittuali. – spiega Federico - In aggiunta a queste, risulta quanto mai urgente imparare inedite modalità per approcciarsi al conflitto, è necessaria una educazione che sappia rivoluzionare attitudini e atteggiamenti. Occorre promuovere e legittimare nuovi orientamenti e nuovi strumenti per arginare e opporsi alle spinte devastatrici che la contemporanea società della discordia ci dispensa con perfida violenza. Per rendere possibile tutto ciò, anche le discipline e le professionalità pedagogiche devono assumersi l’onere, l’onore e l’impegno di ricoprire un ruolo di primo piano.” Undici gli autori del volume, che diventerà un testo universitario: docenti universitari, mediatori familiari e culturali, pedagogisti. Oltre a Zannoni e Genovese, ci sono Paola Cosolo Marangon, consulente educativa nell’area “Prima infanzia, adolescenza e genitorialità” che collabora con il Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti di Piacenza (CPP); Giordano Ruini, educatore e animatore culturale, blogger e scrittore, che ha ideato e realizzato il progetto Mediterraneo, patrocinato dalla provincia di Reggio Emilia; Maria Rosa Mondini, pedagogista, formatrice e mediatrice in campo penale, familiare, scolastico e sociale, che ha introdotto in Italia il modello di mediazione umanistica elaborato da Jacqueline Morineau; Rosalia Donnici, allieva di Paolo Jedlowski, specializzata in Discipline Sociologiche presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (E.H.E.S.S.) di Parigi, mediatrice dei conflitti in ambito penale, sociale, scolastico e familiare presso il C.I.M.F.M. di Bologna; Serena Marroncini, educatrice professionale. Studiosa e cultrice dell’opera e del pensiero di Danilo Dolci; Manuela Vaccari è dottoranda in Scienze Pedagogiche presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna; Alessandra Gigli, ricercatrice in Pedagogia generale e sociale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, dove insegna Pedagogia delle famiglie e Pedagogia della comunicazione e della gestione dei conflitti; Alessandro Zanchettin, docente a contratto di Teorie e pratiche di teatro in educazione; Federica Filippini, dottore di ricerca in Pedagogia, docente a contratto presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Il volume si compone di due parti, pensate in continuità e in dialogo reciproco. La prima parte, più teorica, dedicata ai conflitti e alle relative tecniche e strategie di gestione. La seconda parte, più pratica, è interamente dedicata alla mediazione dei conflitti, intesa e declinata nei suoi molteplici ambiti. La tesi di fondo del libro è che oggi la conflittualità è in aumento in tutti i settori, ma le persone sono meno in grado di gestirla, questo per trasformazioni sociali, disgregamento delle comunità, sostituite dal concetto, meno impegnativo, di “rete”, carenza di vera socialità, vero e proprio autismo individuale, famigliare, sociale.

venerdì 2 novembre 2012

I CRISANTEMI E LE ROSE NELL'ORTO - RACCONTO DI NOVEMBRE


http://www.redacon.it/2012/11/01/i-crisantemi-e-le-rose-nellorto/

Non so perché, né da dove le fossero giunti, ma mia nonna Eva aveva due vasi di oleandri che, con i primi freddi, finivano al riparo in uno scantinato della “casa vecchia”, insieme al sedano, accuratamente levato dall’orto e interrato in un mastello riempito di sabbia, così da conservarsi - bianco e turgido - per l’inverno.

IO, A TRE ANNI, CON UN MAZZO DI ROSE VICINO ALL'ORTO

I cavolfiori e le verze, al contrario, come teste dormienti di creature silvane - elfi o folletti - restavano nell’orto; le rugose verze, bollite con le ossa del maiale e il riso, sarebbero diventate, nei mesi seguenti, un ottimo piatto invernale. Che poi, se ci aggiungevi l’uovo sbattuto con un bel po’ di parmigiano grattugiato (la tridüra), il sapore guadagnava indicibili vette di piacere.
Gli oleandri non si mangiavano, ovviamente, anzi: mia nonna diceva che erano velenosi; erano solo belli e passavano l’estate davanti a casa, insieme ai vasi dei gerani rossi e alla ciotola del basilico.
E all’immancabile “bevilacqua” (fragile, ma facilmente moltiplicabile tagliandone un rametto e ponendolo in acqua a fare le radici) sul davanzale della finestra.
Amava i fiori, mia nonna Eva, amava l’ordine e tutto ciò che era bello (come il ricamo e i pizzi all’uncinetto), tuttavia, da persona pragmatica qual era, sapeva che il tempo concesso alla bellezza dei fiori non doveva essere sottratto a quello del lavoro.
Se poi si trattava della cura della propria persona – e della propria bellezza - mia nonna affermava che fermarsi troppo davanti allo specchio era sintomo di vanità, qualcosa che aveva a che fare col diavolo, perciò ci si doveva lavare, sì, pettinare, tenere in ordine, sì, ma mai si doveva indugiare troppo in quelle sciocchezze. Era solo una perdita di tempo.  
In verità, ho sempre pensato che fosse facile, per lei, pensarla così: era naturalmente bella, con la pelle di porcellana, guance rosate, capelli ricci, lunghissimi, grandi occhi grigi e un nasino minuscolo che sembrava quello della mia bambola. Niente a che vedere con la mia pelle olivastra e i miei lineamenti da zingara che, certo, non avevo ereditato da lei.
Utilità, dunque, era la parola d’ordine. Lo era soprattutto per la terra che mai veniva sciupata.
Non c’era un angolo, intorno a casa o nei campi, che non servisse a produrre qualcosa.
Nulla veniva sperperato e tutto veniva riciclato; la cenere della stufa, con il letame, diventava concime per le zolle argillose dell’orto, ma in quantità ben calibrata, perché, altrimenti, contenendo fosforo, avrebbe bruciato ogni pianta.
DIETRO DI ME (NOVE ANNI) IL TETTO
DELLA "CASA VECCHIA"
L’orto, poi, era strutturato in modo da accogliere tutte le verdure possibili, ben allineate nei loro campetti separati dai sentierini. E le sementi erano quelle raccolte da mia nonna anno per anno, messe a seccare su fogli di giornale e poi riposte in sacchetti di carta con tanto di nome.
Credo che se le scambiassero di famiglia in famiglia, così come si scambiavano i conigli maschi riproduttori o le uova da “dare a covv” alle chiocce, forse per evitare che, riproducendosi in endogamia, tra individui dello stesso ceppo, animali e piante si indebolissero troppo.
Le zucche, invece che nell’orto, si seminavano ai bordi del letamaio, dove stendevano le loro enormi foglie e i loro tralci tentacolari, pappandosi l’humus nero digerito e rigurgitato da migliaia di lombrichi e producendo i gialli frutti che sarebbero diventati tortelli altrettanto gialli.  
I radicchi e le bietole, oltre a qualche fila nell’orto, li spargeva mio nonno qua e là nei campi, dove si sviluppavano rigogliosi, così che poi mi toccava star lì a mondare cesti e cesti di  bietole, levando le “coste” bianche dalla foglia e liberandole da viscide lumachine, terriccio e pidocchi, quando mamma e nonna decidevano di fare lo scarpasùn o i tortelli verdi.