lunedì 24 settembre 2012

MIA INTRODUZIONE AL LIBRO "IL GIORNO DI NOZZE - COME ERA UNA VOLTA", DI IVO RONDANINI


PREFAZIONE

Le spose di ogni tempo risultano belle, eppure, quelle del passato hanno qualcosa in più: comunicano grazia e fascino quieti, disciplinati dalla consuetudine, plasmati dal lavoro, dalla pazienza e dalla tenacia; occhi innocenti tuttavia maturi, volti puliti, capelli acconciati con grazia, sguardi composti che nulla lasciano filtrare delle suggestioni d’amore. Giovani donne d’inizio Novecento del territorio di Carpineti, in questo terzo lavoro di Ivo Rondanini, e poi donne degli anni successivi, fino al Cinquanta/ Sessanta delle stesse zone; donne dei campi, ma anche figlie della media borghesia locale; donne energiche, alcune appena alfabetizzate, altre sicuramente ben istruite.
Accanto, i loro sposi: giovanotti con la pelle segnata dal sole e dalla vita, come non è più dei ragazzi di oggi; gli sguardi adulti, consapevoli e sicuri.
Un volume suggestivo e di valore per le immagini dei matrimoni del carpinetano e per le annotazioni che le accompagnano; una galleria di volti, di pose, di gruppi che colpisce per la forza dei visi e la successione delle bellezze non solo contadine - tipiche e severe - ma anche (quelle più vicine nel tempo) modernamente allegre e vivaci.  Le donne del Novecento ostentano pose e avvenenza da originali vedette dell’epoca, come Amabile Arati, di Casteldaldo, dal viso intenso e dai capelli seminascosti dalla “cloche”. Siamo negli anni Venti, gli anni “ruggenti. Dopo le privazioni e le paure della guerra, si apriva una nuova epoca di benessere e ottimismo e un nuovo senso di libertà e speranza si diffondeva nella società.
Sono gli anni di Chanel e Schiaparelli (di cui, probabilmente, le spose di Carpineti nulla sapevano) artefici del nuovo abbigliamento femminile, pratico, funzionale, di grande eleganza e bellezza.
Gli abiti semplici, senza busti né stecche, liberavano per la prima volta
i movimenti della donna: le linee diventavano dritte, i tessuti morbidi,
la vita bassa, la gonna un po’ più corta. E poi i capelli tagliati a caschetto
scendevano, sbarazzini, sotto la “cloche” calzata fino alle sopracciglia. Il
marito di Amabile, Domenico Casoni - a parte una vistosa sciarpa a righe
- appare invece molto discreto; camicia bianca, quella delle occasioni particolari,
pantaloni ampi, introdotti intorno al 1925 e il cui uso scomparve
negli anni Trenta, giacca con fazzoletto bianco nel taschino e cravatta in tinta. Altra peculiarità dell’abbigliamento maschile, nel periodo fra le due guerre, furono i pantaloni alla zuava, come ci conferma la fotografia del giorno di nozze di Paolo Mercati e Cesarina Corbelli dell’anno 1937.  Le foto di matrimonio sono, in realtà, degli inconsueti ed eccezionali “sociogrammi”: di una situazione descrivono e ci raccontano molto più di tante parole.
Importante, questo lavoro di Rondanini, che fa ricordare come, nella prima metà degli anni Sessanta, un gruppo di ricerca coordinato dal sociologo Pierre Bourdieu abbia studiato gli usi sociali delle fotografie, soffermandosi proprio su quelle dei matrimoni.
Il sociologo sosteneva che i gruppi familiari avevano bisogno di sentirsi uniti per rafforzare nel tempo il loro legame. A questo scopo, essi utilizzavano inconsapevolmente un “mediatore”, uno “strumento” programmato per rimanere al servizio della comunità: la fotografia.  Secondo Bourdieu, i quadri o le foto di gruppo, le immagini in cui una collettività o un’istituzione ritrae se stessa sono modi in cui la società si costruisce. Quindi, la rappresentazione è un aspetto fondamentale della costruzione della società e produce effetti reali sul suo funzionamento.  Certo: fare una foto, a quei tempi (e nei nostri paesi), era un evento raro anche per un matrimonio. Alcune persone non potevano proprio permetterselo. Molti non hanno nessuna immagine delle loro nozze. Con questi presupposti, quando ci si preparava per fare una foto, non si potevano commettere errori e mettersi in posa era la prassi; si veniva dunque ritratti in modo forzatamente formale e serioso. L’approccio con la camera, nei primi anni del Novecento, era poi qualcosa di totalmente estraneo all’uso quotidiano; si chiedeva ai soggetti di rimanere immobili e spesso si usava il magnesio come illuminazione. Poiché le lastre fotografiche usate erano meno sensibili delle pellicole attuali, era necessario un lungo tempo di esposizione.
Nei casi peggiori, la posa poteva durare più di un minuto, quindi le persone inquadrate dovevano restare ferme, o la foto risultava “mossa”.  Spesso si usavano dei sostegni ai quali appoggiare il collo. Non solo per le foto dei matrimoni, ma per qualsiasi foto si vestiva l’abito migliore e si assumeva un’espressione quanto più seria e compunta possibile: di fatto, si stava producendo un documento che sarebbe rimasto nel tempo e tramandato; qualcosa di importante in cui lasciare, per sempre, la miglior impressione di se stessi. Se non si andava nello studio del fotografo, doveva essere il fotografo stesso a percorrere diversi chilometri con cavallo e calesse, impiegando poi ore e ore per preordinare l’attrezzatura; ma avere il fotografo a disposizione era prerogativa delle sole famiglie agiate o degli eventi pubblici.

 

Fra le cerimonie più importanti della vita familiare, dove c’erano le possibilità economiche, il matrimonio veniva quindi programmato attraverso un’iconografia rituale rispettosa di una coreografia convenzionale.  Mica per niente, anche nelle foto dei matrimoni di Carpineti paiono tutti attori usciti da un vecchio film!
Ritornando a Bourdieu, secondo il sociologo, andava fotografato ciò che corrispondeva alle aspettative e ai parametri della rappresentazione.  Pertanto, non gli sposi “reali”, bensì i due sposi “attori” calati in un contesto scenografico prestabilito, in procinto di recitare una parte pressoché invariabile, così come era prescritto dal canone iconografico del matrimonio.  La fotografia di matrimonio, cioè quella finzione percepita come immagine reale, poteva a questo punto agire e portare a compimento il suo programma: compattare il gruppo mantenendo in vita una tradizione.  Il volume di Rondanini assume, dunque, una doppia funzione: salvare un patrimonio di immagini che altrimenti andrebbero perdute e, dal punto di vista storico e sociale, attirare l’attenzione su veri documenti (fotografie e annotazioni) che sono alla base dell’istituzione dell’identità collettiva e indubbiamente fondativi della nostra tradizione. Dentro ad ogni foto e ad ogni didascalia c’è la storia: usanze, moda, benessere economico o crisi, metodi di governo.
La fotografia del 30 dicembre 1936 delle nozze dei giovani (25 anni lui e 24 lei) Adelmo Manfredini e Candina Rondanini, tutti e due in abito scuro, seri e, in qualche modo, distinti, vede, nelle annotazioni che riguardano i regali ricevuti, le 500 lire del Duce, consegnate allo sposo a Carpineti dal segretario del partito fascista carpinetano ragionier Belelli.  Tutti coloro che si sposavano in quel periodo avevano diritto a una serie di aiuti che il governo aveva messo in atto. Difatti, nel quadro della battaglia per l’incremento demografico, il regime fascista aveva prodotto una vasta legislazione orientata al sussidio per le nuove famiglie: alle nuove coppie di sposi venivano fatti prestiti che dovevano essere restituiti solo nel caso non facessero figli, e polizze d’assicurazione a condizione molto favorevoli erano distribuite anche dal sacerdote che celebrava il matrimonio. Nel dicembre del 1925 il fascismo aveva emanato la prima riforma sulla questione femminile con la creazione dell’Omni (Opera Nazionale per la Maternità ed Infanzia) per la tutela della madre e del bambino.  Nel 1927 era partita la campagna per l’aumento delle nascite (chi non ricorda la tassa sul celibato?), ma il primo serio sforzo per la creazione di organizzazioni di massa femminili si era attuata all’inizio degli anni Trenta. La campagna per l’incremento demografico si protrasse fino alle soglie del secondo conflitto mondiale.

 

Coincise poi in gran parte col periodo fascista la diffusione in Italia della nozione moderna di “adolescenza”, concepita come una fase di libertà.  Il matrimonio, anche se visto come riduzione della stessa, era molto atteso.
L’età media per le nozze delle ragazze si mantenne sui 24/25 anni.  Solo nel caso in cui le ragazze avessero dovuto accudire genitori anziani o fratelli disabili era probabile che non si sarebbero mai sposate.  E una signorina che si avvicinava alla trentina non ancora fidanzata vedeva agitarsi dinanzi a sé lo spettro della zitella, che denotava una condizione fisica e morale, un’incapacità ad ispirare i sentimenti, per difetti fisici, cattivo carattere o mancanza di dote.
Storia, dunque, storia della gente comune inserita nella storia di una giovane Nazione da poco uscita dall’unificazione e dove la vita, per la maggior parte della gente, era cambiata ben poco: i contadini e i pastori continuavano ad lavorare la terra con gli stessi strumenti di prima e ad accudire le loro greggi come prima. Il benessere, sui nostri monti, arrivò alla fine degli anni Cinquanta, e arrivò lentamente, mescolando il nuovo (automobili, elettrodomestici) con l’antico. Emblematica, in proposito, la storia di Davide Togninelli e Rita Bedogné. Un pastore, Davide, che scendeva da Monteorsaro fino a Ca’ Mino, a casa di Mingàt e lì aveva conosciuto Rita.  Possedeva un gregge di ben trecento pecore che accudiva aiutato da due o tre garzoni e aveva pure una moto Guzzi. Andava in transumanza a San Rocco di Guastalla e Rita, dopo il matrimonio, lo seguì per quarant’anni.  Si sposarono: lei con un tailleur doppio petto color occhio di pernice e una camicetta azzurra, opera della sarta Onelia Tagliani, le scarpe di camoscio nere (già usate) e la borsetta, sempre di camoscio, acquistata due anni prima a Milano, quand’era là a lavorare come bambinaia; lui con un abito in doppiopetto dello stesso colore di quello di lei, confezionato dal sarto di Villa Minozzo chiamato “sartin”. Ebbero in dono 500 lire da parte di un certo Pietro di Coriano, amico dello sposo, un portagioielli in argento da parte del cognato Giovanni Zamboni e poi… una mezza torta da parte della flépa; solo mezza, perché l’altra metà l’aveva mangiata il gatto.  Ma poi ci fu anche il pranzo di nozze, con ben venti invitati, e pure il viaggio di nozze, a bordo di una Fiat 500: quindici giorni a Firenze a casa di una cugina dello sposo.
Fu proprio negli anni Cinquanta che comparvero le prime automobili, documentate dalle foto del volume, che accompagnavano gli sposi in chiesa. All’inizio si limitavano a trasportare gli sposi e, dato che quasi nessuno le possedeva, venivano “procurate” tra i pochi fortunati proprietari, nella cerchia di parenti o amici, oppure si prendevano a noleggio con “chauffeur”.
Poi si cominciò a farne sfoggio (e lo si fa tuttora), quando sfilavano in tante dietro quella degli sposi, e c’era chi, quando transitava il corteo, le contava puntualmente e, in relazione al loro numero, stimava l’importanza delle nozze. In alcune foto compaiono decine di Fiat 500 sul piazzale Dante, alla Pietra di Bismantova, e poi le 600 e le 850 Fiat, ma anche una lussuosa Fiat 1800 berlina in un matrimonio del 1965.  E negli anni Cinquanta/Sessanta, insieme alle automobili, compare l’abito bianco con il velo nuziale. Bellissima la sposa del maestro Arnaldo Tincani all’uscita delle chiesa, con l’abito bianco appena sotto al ginocchio e l’ampio, vaporoso velo che l’avvolge.
Il velo che nasconde e rivela con discrezione, filtra e protegge la personalità femminile, è abbigliamento che vuole significare modestia, castità, onestà. La parola “nozze” ha origine proprio dal velo: dal latino nuptiae, dal verbo nubere (sposare), da nebula (nebbia) o da nubes (nuvola), indica appunto il velo con cui veniva ricoperta la sposa.  In effetti, se la prima a indossare un abito bianco in occasione del suo matrimonio fu Maria Stuarda, nel 1558, il bianco divenne popolare solo nel 1840 a seguito di un altro matrimonio reale: quello tra la Regina Vittoria e Alberto di Sassonia. In quell’occasione, infatti, la fotografia che ritraeva la maestosità della sposa vestita in bianco fu ampiamente diffusa, tanto che il colore venne adottato da moltissime spose fino a diventare una vera e propria tradizione nuziale occidentale. Tradizione che viene da lontano, quella del velo, forse anche dovuta ai matrimoni combinati, dove lo sposo poteva vedere il volto della sposa soltanto dopo il matrimonio e gli era così impedito di rifiutarla. Tuttavia, anche la tradizione ebraica faceva celebrare il rito nuziale (nussuin) sotto la huppah, un baldacchino eretto presso la sinagoga o nella casa dello sposo. Questo rito fu ripreso anche dai cristiani, facilitati in ciò dall’antica tradizione romana che non soltanto faceva indossare alla sposa al momento delle nozze il flammaeum, velo rosso dai riflessi di fuoco caratteristico della donna sposata, ma nel periodo più antico faceva stendere su tutti e due gli sposi un velo.  Ed è a questo rito che si ricollegano i termini nubere, nuptiae connubium e il greco nynphios, che etimologicamente significa coprire, e i vocaboli derivati.
Nelle annotazioni puntuali di Ivo Rondanini, leggiamo dei regali, il più delle volte, come già detto, pochi e semplicissimi (cinque torte, tre galline, tre lenzuola fatte al telaio…), del pranzo e del viaggio di nozze (a Firenze, Roma, Genova per i più fortunati), del bouquet (incredibile un mazzo di crisantemi raccolto nell’orto e consegnato alla sposa avvolto in carta da giornale), del corredo della sposa. Perché non ci si sposava senza corredo.  Allora le famiglie, man mano che le bambine crescevano, le tenevano occupate con il corredo, in quanto il matrimonio era scontato: un obietti8 vo “normale”. Così, le ragazze si ritrovavano copriletti, lenzuola e asciugamani, camicie da notte a volte troppo belli (all’uncinetto, ai ferri, ricamati a mano e tessuti al telaio), tanto belli da non poter essere quasi mai usati.  Nei matrimoni più recenti spuntano anche le orchestrine che allietano la festa di nozze e le coppie cominciano a farsi fotografare con i regali.  Si tratta sempre di matrimoni religiosi, si va sempre in chiesa ed è interessante ricordare, dal punto di vista catechistico, come “Il Matrimonio fu istituito da Dio stesso nel paradiso terrestre, e nel nuovo Testamento fu elevato da Gesù Cristo alla dignità di sacramento.” (Catechismo Maggiore).  Insomma: il matrimonio è l’unico sacramento che nasce con la Creazione stessa, forse perché è l’unione dell’uomo e della donna che continua l’opera del Creatore.
Nei bigliettini augurali scritti agli sposi, ritrovati da Ivo Rondanini, l’augurio di avere tanti figli è ricorrente, anche sotto forma di simpatiche rime: “Rossa è la rosa, bianco è il giglio, viva la sposa e il suo primo figlio.  E se non sarete contenti, ve ne auguriamo altri venti!”

Normanna Albertini


Storia

dell’istituzione matrimoniale
Unione di un uomo e di una donna legittimata dalle leggi civili o religiose o dalle consuetudini. Secondo i giuristi romani il matrimonio era un’istituzione fondata sul diritto naturale, definita come unione sessuale dell’uomo e della donna. In epoca repubblicana presupponeva la sottomissione della donna all’autorità (manus) di un uomo e si realizzava attraverso il trasferimento della patria potestas dal padre allo sposo, che veniva ad avere perciò sulla moglie un potere analogo a quello esercitato sui figli e sugli schiavi. Questo matrimonio, detto cum manu, fu progressivamente sostituito da quello libero (sine manu), fondato unicamente sul consenso degli sposi. Dalla formula del giureconsulto Ulpiano, secondo cui non è l’unione fisica che fa il matrimonio, ma il consenso, derivavano alcune importanti conseguenze. Il matrimonio non aveva bisogno di particolari formalità e non avevano effetti giuridici né i riti tradizionali che l’accompagnavano né il fidanzamento, perché in mancanza di una volontà chiaramente espressa non ci poteva essere alcun obbligo derivante da una promessa di matrimonio; l’età minima richiesta era quella ritenuta sufficiente per esprimere validamente il consenso, dodici anni per le donne e quattordici per gli uomini. Dal primato del consenso derivava inoltre la nullità del matrimonio fra schiavi o con una persona in condizione servile, dato che gli schiavi non avevano una volontà capace di dar luogo a relazioni giuridiche; infine, mentre nel matrimonio cum manu solo l’uomo poteva ripudiare la donna, il principio del consenso rendeva legittimo il divorzio consensuale e quello su iniziativa di uno dei due coniugi, cosa che avveniva senza bisogno dell’intervento dell’autorità pubblica.
Nel Cristianesimo
La Chiesa cristiana riconosceva le unioni contratte secondo il diritto romano, avanzando però una propria visione etico-religiosa della vita matrimoniale. Benché gli scrittori cristiani affermassero il primato del celibato e della verginità, il matrimonio era ammesso come una concessione fatta a chi non sapeva vivere in castità, un male minore quindi rispetto alle sregolatezze della vita sessuale (da qui la formula remedium concupiscentiae).
Questa posizione si trova già in san Paolo, che nella lettera ai
Corinzi scrisse è meglio sposarsi che bruciare, esprimendo tuttavia anche una visione ben diversa nella lettera agli Efesini, dove il matrimonio fu presentato come un simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa. Dopo l’editto di Milano (313) la Chiesa sollecitò alcune modifiche al diritto vigente, in particolare l’introduzione del divieto di divorzio e di secondo matrimonio dei vedovi, ma fu solo nel 542 che l’imperatore Giustiniano ridusse i motivi legittimi di divorzio unilaterale e soppresse quello consensuale, reintrodotto però nel 566 dal suo successore Michele III.
Il matrimonio medievale
La Chiesa sostanzialmente accettò le regole del diritto germanico in
materia matrimoniale, benché fossero completamente diverse da quelle
del diritto romano, dal momento che non riconoscevano alcuna autonomia
alla volontà degli sposi. Il matrimonio germanico avveniva in due
tappe: la prima, la desponsatio, era costituita da un contratto stipulato
dalle famiglie degli sposi nel quale il potere sulla donna (mundio) era
trasferito dal padre al futuro marito, che in cambio pagava una dote al
padre della sposa (nel diritto romano era invece quest’ultimo a costituire
una dote per la figlia); in un secondo momento seguivano le nuptiae, che
si concludevano con la traditio puellae, l’accompagnamento della sposa
nella camera nuziale. Per lungo tempo invece la Chiesa si oppose soprattutto
a due aspetti del diritto germanico, lo scioglimento delle famiglie
per ripudio o divorzio consensuale e il concubinato con mogli di grado
inferiore, ammesso accanto al matrimonio principale (Carlo Magno arrivò
ad avere fino a quattro concubine). Nel frattempo la Chiesa riconsiderava
la propria visione della vita matrimoniale e nell’866, con una lettera
di papa Niccolò I, affermò per la prima volta il fondamento consensuale
del matrimonio, che impose solo nell’XI-XII secolo. Durante i secoli VIIXI
il principale obiettivo della Chiesa fu quello di allargare la nozione di
incesto. Il diritto romano vietava il matrimonio fra consanguinei, ma la
Chiesa estese la consanguineità fino al settimo grado, computato secondo
il modo germanico (si contano solo i gradi ascendenti per arrivare all’antenato
comune) e non secondo quello romano (si contano anche i gradi
discendenti): per conseguenza i figli di due cugini erano parenti di terzo
grado (e non di sesto, come nel computo romano) e il loro matrimonio era
un incesto grave. I capitolari carolingi affidarono al clero il compito di indagare
sull’eventuale consanguineità fra sposi e la Chiesa si assunse il potere
di separare gli sposi incestuosi, dichiarando nullo il matrimonio. Ma
la Chiesa andò perfino oltre, parificando l’affinità alla parentela. Il ruolo
giuridico che il clero si era così assunto si venne col tempo fondendo con
la vecchia pratica della benedizione degli sposi. Non appena la dottrina
del consenso e quella della natura sacramentale del matrimonio si furono affermate fra teologi, giuristi e papi, il vero matrimonio cessò di essere la desponsatio contrattata tra le famiglie, diventando la cerimonia religiosa nella quale il prete, dopo aver indagato sui rapporti di consanguineità, doveva accertare negli sposi l’esistenza di una libera volontà presente. Il matrimonio divenne così materia di diritto canonico e la raccolta del canonista Graziano (1140 ca) definì il matrimonio come l’unione dell’uomo e della donna che fonda tra loro una comunità di vita. Mentre fra teologi e canonisti restava aperto il dibattito sul rapporto fra dottrina del consenso ed effettiva unione sessuale (il matrimonio rato, cioè valido secondo le leggi canoniche, ma non consumato rientrava tra quelli annullabili), il concilio Laterano IV (1215) apportava una fondamentale innovazione abbassando dal settimo al quarto grado il divieto per consanguineità o affinità.
La sistemazione controriformista
La Chiesa cattolica introdusse una nuova sistemazione della materia matrimoniale solo con il concilio di Trento. Nella XXIV sessione (novembre 1563) il concilio definì solennemente la natura sacramentale del matrimonio, condannando le dottrine protestanti che l’avevano invece negata.  Lutero aveva riaffermato l’origine divina del matrimonio, ma aveva anche sostenuto che esso era stato istituito non in rapporto al problema della salvezza, bensì in rapporto all’ordine naturale dei rapporti umani e quindi non era un sacramento. Di conseguenza Lutero reinserì il matrimonio nel diritto civile, ammettendo in alcuni casi il divorzio, e giudicò illegittimo tutto ciò che si opponeva all’unione dell’uomo e della donna, dalla definizione troppo larga di incesto al celibato imposto al clero e alle monache. Oltre a condannare queste tesi protestanti, il concilio di Trento riaffrontò la questione dei matrimoni clandestini, celebrati fra parti consenzienti ma senza la dovuta pubblicità, già proibiti dal concilio Laterano IV. Con una formulazione contorta che non ottenne il voto unanime dei padri, il concilio di Trento riaffermava la dottrina classica (solo i matrimoni celebrati con consenso degli sposi sono veri matrimoni) e condannava chi affermava la nullità dei matrimoni celebrati senza il consenso dei genitori; allo stesso tempo minacciava la nullità per quelli contratti senza il rispetto delle forme di pubblicità. Il decreto del concilio fu giudicato in Francia contrario alla legislazione vigente e, non potendo essere espressamente rifiutato, non venne mai pubblicato. Perciò in diverse occasioni, fra il 1579 e il 1730, le ordinanze reali imposero l’esplicito consenso dei genitori per gli uomini con meno di trent’anni e le donne con meno di venticinque e parificarono al rapimento (che comportava fino alla pena di morte) i matrimoni clandestini. Mentre il matrimonio civile si affer12 mava nei paesi protestanti (alcuni dei quali, come la Prussia, accoglievano il divorzio), in quelli cattolici restò di competenza del diritto canonico fino alla Rivoluzione francese. Il decreto del settembre 1792 consegnava in Francia al diritto civile la materia matrimoniale, aboliva il consenso dei genitori e gli impedimenti canonici e introduceva il divorzio. Il codice civile napoleonico, che venne via via esteso a gran parte dell’Europa, ristabilì il potere del padre sui figli ed estese quello del marito sulla moglie, ma non toccò il principio del matrimonio civile. Questo finì per diventare generalizzato nell’Europa del XIX secolo e fu reintrodotto anche in Italia con il codice civile del 1865, ma i Patti lateranensi del 1929 istituirono un doppio regime, riconoscendo effetti civili ai matrimoni celebrati secondo il rito cattolico.
(a cura di Normanna Albertini)
Bibliografia: G. Duby, Il cavaliere, la donna e il prete, Laterza, Bari-Roma 1982; J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Sei, Torino 1987; Ch.  N.L. Brooker, Il matrimonio nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1992.

Intorno al matrimonio

Le Fedi
L’usanza di portare la fede all’anulare sinistro risale addirittura all’epoca degli antichi Egizi. Essi credevano infatti di aver individuato una vena che, partendo dall’anulare sinistro, arrivasse fino al cuore: lungo questa vena pensavano che corressero i sentimenti.
“Legare” l’anulare significava quindi garantirsi la fedeltà.  Per incoronare e sigillare l’unione tra gli sposi già gli antichi Romani si scambiavano anelli di ferro; per l’antica legge ebraica le fedi avevano ancor più importanza, infatti si riteneva che solo lo scambio di questi anelli fosse sufficiente a rendere legale il matrimonio.
Nel Medioevo, quando non aveva ancora preso totalmente piede lo scambio degli anelli, la “fede” era di grande fattura e di pari preziosità e spesso lo sposo inanellava la sposa con tre anelli.
In alcune regioni d’Italia è anche chiamata “vera”, termine veneto-slavo, che significa fedeltà. All’interno si è soliti incidere la data del matrimonio, il nome della sposa in quella di lui ed il nome dello sposo in quella di lei.  La tradizione vuole che sia lo sposo a pagarle ed a conservarle fino al momento dello scambio, ma spesso sono i testimoni a regalarle. Saranno poi i paggetti a portarle sull’altare per la benedizione.  Le fedi più indossate sono la “francesina”, la classica oppure la piatta.  Chi preferisce qualcosa meno tradizionale può optare per un modello incrociato a più cerchi, oppure può scegliere la vera con un piccolo diamante, o addirittura con una serie di diamanti.
Il vestito da sposa
La tradizione dell’abito bianco per la sposa risale all’Ottocento e rappresenta verginità e purezza.
Le spose romane erano avvolte invece da veli gialli e arancione.  Le donne cinesi vestivano in rosso. Rosso è ancora oggi il colore nuziale delle spose indiane.
Le spose longobarde vestivano solo una tunica nera.  Le spose bizantine delle classi più ricche indossavano vesti di seta rossa con ricami in oro e pietre preziose.
Nel Medio Evo e nel Rinascimento gli abiti nuziali erano molto colorati, così da essere indossati anche in seguito, durante le feste. Il colore più usato, in ogni modo, era il rosso, perché si riteneva che propiziasse le nascite.  Oggi, oltre al colore bianco, si predilige il beige.

Il velo nuziale
Il velo proviene dalle usanze del popolo romano; veniva usato non come segno di pudore da parte della sposa, ma perché a quei tempi i matrimoni venivano concordati per interessi e per motivi politici, tant’è che i due futuri sposi non avevano neanche la possibilità di incontrarsi prima delle nozze.
La sposa copriva allora il suo volto fino alla fine della cerimonia per evitare possibile ripensamenti.
Al termine della cerimonia la sposa mostrava il suo aspetto e…immaginiamoci la sorpresa!
I confetti
Per tradizione, nell’antichità venivano confezionati in preziosi sacchetti di tulle, oggi in pizzo, per il giorno del matrimonio. I confetti devono essere rigorosamente di colore bianco e sempre in numero dispari, di solito cinque, per rappresentare le qualità che non devono mancare nella vita degli sposi:
·        Salute
·        Fertilità
·        Lunga vita
·        Felicità
·        Ricchezza
La tradizione prevede che la coppia di sposi giri tra i tavoli dopo il taglio della torta. Lo sposo reggerà un vassoio d’argento con i confetti, la sposa li servirà agli invitati con un cucchiaio anch’esso in argento sempre in numero dispari.
La dote
Secondo la tradizione, lo sposo, per tutto il primo anno di matrimonio, non doveva sostenere spese per l ‘abbigliamento della moglie e quindi la famiglia di lei forniva gli abiti, biancheria e accessori.
Le bomboniere
La tradizione le vuole classiche realizzate in cristallo, argento, limoges e soprattutto uguali per tutti: non esistono parenti e amici meno importanti di altri.
Il riso
Prima del riso, ai tempi dei pagani, veniva gettato grano sugli sposi per simboleggiare una pioggia di fertilità.

Il bouquet
Il bouquet è, secondo la tradizione, l’ultimo omaggio dello sposo per la sposa e chiude il ciclo del fidanzamento.
L’usanza vuole che lo sposo lo faccia recapitare al mattino a casa della sposa anche se in realtà è la sposa stessa a sceglierlo, in quanto deve armonizzare con il suo abito.
In alcuni paesi è addirittura la suocera a regalarlo. Alla fine del ricevimento sarà lanciato a caso tra tutte le ragazze nubili: chi riuscirà ad afferrarlo dovrebbe sposarsi entro l’anno.
L’usanza di ornare la sposa con i fiori è antichissima e nasce dal mondo arabo. Qui, la donna che doveva sposarsi veniva ornata, il giorno delle nozze, con i fiori d’arancio, bianchi e delicati, simbolo di fertilità. L’usanza è nata come augurio di avere una prole numerosa.  Gli antichi Egizi poi ornavano la sposa di fiori profumati ed erbe odorose per allontanare gli spiriti maligni .
Le damigelle della Sposa
Gli antichi Egizi credevano che gli spiriti cattivi si radunassero il giorno delle nozze nel luogo del matrimonio per rovinare la buona e lieta atmosfera.  Per questo motivo, le amiche della sposa vestivano con abiti lussuosi e seguivano la sposa per confondere gli spiriti maligni, che non potendo riconoscerla non potevano augurale sventure.
La luna di miele
Gli sposini dell’antica Roma erano soliti mangiare del miele per tutta la durata di “ una luna “ dopo il matrimonio (forse anche per riprendere le forze dopo la lunga giornata). Da qui l’origine del detto “luna di miele” ad indicare i primi dolci momenti della vita di coppia.
Ed altro ancora...
La tradizione di sollevare tra le braccia la sposa e attraversare la soglia della nuova casa risale all’antica Roma: facevano così per evitare che essa inciampasse, presagio infausto, perché significava che le divinità non la volevano accogliere.
La tradizione vuole che gli sposi non si vedano e si parlino prima della cerimonia nuziale.
Il fiore d’arancio simboleggia purezza e verginità.  La tradizione vuole che il fidanzato ne regali un mazzetto, legato con un nastrino bianco, alla futura moglie.
Ai tempi delle corti, secondo la tradizione, l’uomo rapiva la sua preferita e
scappava in groppa al suo cavallo cingendola con braccio sinistro, mentre con il destro guidava il suo destriero lontano dal villaggio, in più per difendere la sua amata, usava, il destro per impugnare le armi.  In alcuni paesi, per tradizione, la sera precedente al matrimonio lo sposo organizza una serenata sotto la finestra della futura sposa. Lo accompagnano parenti e amici e naturalmente un musicista con il violino, la chitarra o la fisarmonica. A fine serenata, un ricco buffet per tutti in segno di ringraziamento viene offerto dai genitori della sposa.

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