giovedì 12 luglio 2012

CON LE MANI, CON LE BRACCIA E CON IL CUORE - "Ieri e oggi il lavoro delle donne"

Serata sul lavoro femminile alla festa della Biasola (RE) - 16 giugno 2012
Apertura: Canti   “Son la mondina son la sfruttata”
                                “Senti le rane che cantano”
                                Video: Proiezione in sottofondo delle foto delle mondine (Filmato)senza musica
Narratore
mia mamma mi diceva che… i mal di testa feroci che cominciarono in risaia, quand’aveva solo 14 anni, non l’hanno più abbandonata per tutta la vita.  Acqua sotto, spesso acqua sopra, piegate, nella tensione continua, nella fatica disumana.
Erano quasi tutte ragazzine, allora. Alcune, di soli tredici anni, partivano per la prima volta, spensierate. Salivano all’alba su quel lungo treno-bestiame che le raccoglieva attraverso le campagne padane. Era, di solito, il 24 maggio. La sera tardi erano già in Piemonte, a Novara, a Vercelli. Venivano a prenderle alla stazione, con i carri, e poi via, verso le cascine, per quaranta, quarantacinque interminabili giorni. Sempre in gruppo, nel lavoro, nel canto, nella vita. Nello stanzone dormivano in venti (ma, a seconda delle dimensioni, anche in cinquanta o sessanta), coi fili per la biancheria stesi a raggiera tutt'intorno, c'era il pagliericcio da riempire di fieno e da cucire grossolanamente, delimitandolo a un'estremità con quella cassetta in legno che, per la mondina, era tutto: valigia, armadio, tavolo, cassaforte, rifugio, casa.
Sveglia alle 4.30, al più tardi alle 5: il caposquadra passava tra i pagliericci addormentati tirando più o meno scherzosamente i piedi ancora stanchi. Seguiva  una  rapida  lavata nella fredda acqua della roggia, il fosso vicino alla cascina. Gli uomini direttamente impegnati nella monda del riso erano pochi: si trattava soprattutto di "cavallanti", circa quattro o cinque ogni cinquanta donne.
Mondine e cavallanti raggiungevano le terre bagnate, distanti anche mezz'ora di cammino, e lì iniziavano la giornata di lavoro che durava dalle otto alle dodici ore, spesso superando "inavvertitamente" la soglia sindacale. 
Il lavoro era duro veramente. Nelle varie "quadre" o "piane", misurate in pertiche, in cui venivano suddivise le risaie, le donne, da sei o sette fino a dodici, si disponevano in file parallele. Così, a testa in giù, in mezzo all'acqua anche al ginocchio, fino a pomeriggio inoltrato, a mondare il riso, 
Di tutti i tipi, erano gli animali: innanzitutto, bisce. Venivano afferrate, dalle più coraggiose, per la testa, fatte roteare due o tre volte in alto e poi scagliate all'indietro.

 E c'erano tafani; i cervi d'acqua grandi come una noce, con vere e proprie corna; i sòregh, i topini d'acqua, che facevano il nido nel riso e che, mondando, si finiva per cogliere con la mano.
E la mariètta? La mariètta e il fa prèst, appena un po' più grande, erano insidiosi, invisibili come i pappataci; il loro morso, rapidissimo tra le dita affaticate, "faceva quasi perdere la ragione", 
Per gli inevitabili bisogni fisiologici si faceva un passo indietro o lateralmente; non si poteva uscire dalla fila, non era permesso
  "Sta' giù, piegati!", brontolavano le più vecchie, che la miseria ottocentesca aveva forse costretto a piegarsi non solo nel corpo.
I sacrifici quotidiani si prolungavano nel mangiare: scarso, ai limiti della sussistenza. Riso e fagioli, fagioli e riso. Per cambiare, maccheroni e riso. 1 kg. di riso al giorno, verso il '50, era anche l'aggiunta alla paga, da portare a casa. Volendo, si poteva comprare qualcosa da mangiare ma era un orgoglio, oltre che una necessità, tornare a casa con la "campagna" tutta intera.
 Finiti i lavori del giorno, la vita di giovani e ragazze, per quanto stanchi, riprendeva il sopravvento. Bastava una fisarmonica o anche soltanto il canto: ancora di protesta, e poi d'amore.
Ma nessuna emozione era eguagliabile a quella del giorno della paga, quando erano chiamate una alla volta fuori dal gruppo, secondo la lista, in base al computo delle ore fatto dal caposquadra o dalla "prima mondina".
Con la cassetta in spalla, i soldi in seno, il sacco di riso in mano, le mondine  riprendevano il treno-bestiame per fare ritorno a casa. Durante i 40 giorni le donne avevano coperto il viso con uno strato della pesante pomata "Biancardi"; faceva sudare, si, però là, sotto quella crosta bianca rigata di sudore, il viso poteva non abbronzarsi e rimanere chiaro.
La monda, per tutte, è stata così: una cosa da ricordare, ma anche, dolorosamente, da dimenticare.

Letture   Mondine…"Avevo quindici anni la prima volta che sono partita per la monda. Mi sono trovata in un treno che non era un treno, ma un insieme di vagoni, e ti mettevi a sedere sulla tua cassetta di legno che conteneva tutto quanto ti eri portata da casa: indumenti, oggetti personali, cibo (salame, formaggio), e che quando si apriva, una gran puzza, tutti gli odori immaginabili si erano
formati e si liberavano mescolando il profumo del sapone alle esalazioni del salume scaldato al chiuso in una calda giornata di inizio estate.
E le cassette venivano impilate e ti dovevi anche sedere in alto; non è che fosse poi tanto comodo. Per me era la prima volta e dopo un'ora di viaggio già avevo sete e le più anziane dicevano: "Ragazze è presto, il bello deve ancora venire."
 Poi per 40 giorni sotto un sole cocente, la schiena spezzata dallo stare chinate, lo strisciare viscido e schifoso delle bisce tra le caviglie. A sera, arrivate sull'argine, la scoperta delle sanguisughe attaccate alle gambe.
Ad una vecchia mondina che ci raccontava il suo schifo e la sua paura chiedemmo : "ma tu che cosa facevi?" Risposta : "alzavo gli occhi e guardavo il Monte Rosa"

Letture   Il padrone ci mangiava i minuti, invece di mezzogiorno quasi le 12 e 10 avevamo i calzoni e un giorno ho preso a dietro la sveglia l’ho legata alla cintura e l’ho legata dentro, l’ho puntata, l’ho tirata su e quando era
mezzogiorno drinnn siamo saltate tutte su e via…perché il padrone rubava, rubava 10 minuti il mezzogiorno ,dieci minuti la sera sulle 20 25 mondine 10 minuti qua ,dieci minuti là lui faceva e ore.
Cinque minuti cos’è cinque minuti neanche il tempo per fare la pipì. I servizi igienici erano una siepe o un cespuglio in mezzo ai campi, e per lavarci c'era l'acqua dei canali, che abbondano in Piemonte. Dopo quaranta giorni di quella vita, arrivava anche per la mondina il giorno più bello, quello della paga e del ritorno a casa.
In fila davanti all'ufficio del padrone venivano pagate in contanti lire Mille al giorno (questa paga delle mondine si riferisce agli anni 1948,49,50) e un chilo di riso per ogni giornata di lavoro. Era un'usanza delle mondine nascondere quei soldi in seno, in un sacchetto di stoffa, assicurato alla maglietta con una spilla da balia.

Canto:         “Santa Caterina dei pastai”
                    “Se otto ore vi sembran poche”
                    Video. Proiezione in sottofondo delle foto delle donne serve/balie e altro




Narratore: mia nonna mi diceva che…quand’era a Milano ad allattare la figlia dei suoi signori, ogni volta che sentiva il fischio del treno le si riempivano gli occhi di lacrime, perché pensava alla sua bambina lasciata a casa. Ma non poteva piangere, perché temeva che le andasse via il latte.
Era una balia; era una donna che, in cambio di uno stipendio, allattava bambini altrui. Mia nonna, che era del ’15, era già andata per serva, poi, quando nacque mia madre, andò a balia.
Poi, di nuovo, per serva. Fino, praticamente, al ’56, quando nacqui io. 
Solo le donne più sane e fortunate venivano assunte a servizio da famiglie benestanti.  
La "balia ideale" era una donna che avesse partorito recentemente, e comunque da non più di due mesi, un bambino sano. Doveva staccare suo figlio dal seno, lasciarlo al latte di un’altra donna del paese o al latte di capra e di mucca e partire per la città, per attaccarsi al seno il figlio di una signora.
La balia non doveva essere troppo giovane, non al di sotto dei vent'anni, poiché si riteneva che altrimenti non avesse l'esperienza necessaria per accudire un neonato. La balia doveva essere premurosa e attenta ai bisogni del bambino, mite, non collerica, non facile allo spavento, con un carattere fermo.
Il fenomeno era regolamentato per legge, soprattutto per quel che concerne l'aspetto sanitario. Individuata la donna disposta ad allattare, prima di stipulare il contratto di baliatico vero e proprio, l'aspirante balia veniva fatta visitare da un medico di fiducia per assicurarsi che non avesse malattie, fosse "sana e robusta", e per verificarne la qualità del latte. 
Al suo ingresso nella famiglia cittadina, la balia riceveva in dono due vestiti ampi e sontuosi; con la divisa la balia ufficializzava il proprio ruolo anche davanti agli altri, entrava completamente nella sua funzione che era contrassegnata da comportamenti e norme da rispettare rigorosamente.
 Le balie portavano cuffie e cappelli caratteristici e gioielli (orecchini, collane, anelli) in corallo, considerato portafortuna in grado di conservare il latte buono ed abbondante.
Avevano diritto a tre pasti principali a base di zuppa di verdura, pane bianco e lesso, o carne arrostita, ma senza aggiunta di aromi che potessero dare strani sapori al latte, potevano bere caffè, un poco di vino, ma soprattutto dovevano bere molto latte addolcito con miele per favorire l'allattamento.  
Quello percepito era un salario anche tre volte più alto di quello di un uomo che svolgeva lavori di fatica non qualificati.
 La dura esperienza della separazione dai figli, a volte aggravata dal fatto che era difficile, se non
impossibile, ritrovare lo stesso posto nel loro cuore, ha segnato per sempre, dolorosamente, la vita di queste donne. Ma, allo stesso tempo, ha ferito per sempre l’interiorità dei loro figli che si sono sentiti abbandonati.
  

Letture. Balia, serva…
Caterina Bartolini, nata in un paesino della montagna reggiana nel 1931. 
Quando sono andata a fare la balia la prima volta avevo 4 bimbi. Abitavo a Carpineti, ero disperata, perché eravamo proprio a terra. C’era poco da mangiare, io ero diventata molto magra. Quando aspettavo il Giuseppe sono andata dal dottore di Carpineti, che mi ha curato. Il dottor Sbrozzi, che è una grande persona, grande amico di mio nonno e di mio papà, m’ha chiamato e m’ha detto: “Senti Caterina, io voglio mandarti a far fortuna; se tu ci vuoi andare io ti aiuto. Mi hanno telegrafato da Milano che ci sono dei signori molto importanti che stanno aspettando una balia da latte e tu saresti proprio l’ideale. Vogliono una balia sana, bella, cercano una nostrana che sia in salute. Tu, se ci vuoi andare, lo devi solo dire”. Allora io gli ho detto sì, perché non avevo neanche i soldi per comprare la pasta. Ho parlato con mio marito. “Almeno – gli dico – mando a casa i soldi!”. Così, il dottore mi ha fatto fare le foto e m’ha mandato a far la balia.
“Però – mi ha detto – c’è una cosa che tu non devi dire: che hai 4 figli, perché altrimenti magari non ti prendono. Devi scrivere che ne hai solo 2”. “No dottore – ho risposto – io, se mi vogliono, sono 4. Se non mi vogliono, non me ne frega un bel niente. Che io, i miei bambini, non li rinnego”. Avevo 24 anni. Il mio bambino è nato il 21 di ottobre e a balia sono andata a dicembre, perché i gemelli, i figli della contessa, dovevano nascere tra gli ultimi di gennaio e i primi di febbraio, ma sono nati di sette mesi prematuri: la contessa Giulia ha fatto tutta la gravidanza a letto. E allora sono dovuta partire prima.
Allora prendevo 120.000 lire al mese ad allattare i gemelli della contessa. Sono andata là il 5 di dicembre e il 25, a Natale, ho mandato a casa 250.000 lire, solo di regali. Sono stata lì da dicembre alla fine di luglio! Dopo è venuta anche un’altra, perché da sola non ce la facevo mica, perché i bambini erano molto robusti, molto, erano cresciuti molto bene. Avevo ancora 850 grammi di latte al giorno.
Io – dico la verità – non avevo mai visto i camerieri che servivano con i guanti bianchi; non c’ero mai stata lontana da casa e lì mi facevano mangiare ogni ben di Dio. Per il latte. Mi facevano mangiare dei gran budini di semolino, della barbabietola – che non sapevo neanche cos’era – dicevano che cura la pelle e fa bene al latte. E poi, alla sera, dei gran termos di aranciata, di latte, da bere. E guai se non lo bevevo. Ero diventata molto robusta, fiera, stavo benissimo.
Canto:     “I treni a vapore”

Letture

Emigrare: Svizzera o Argentina

CI CONSULTAMMO IO E MIO MARITO PER DECIDERE E FUMMO D’ACCORDO PER LA SVIZZERA ERA PIÙ VICINA
QUESTA DECISIONE MI OBBLIGO’ A SEAPRARMI DA MIA FIGLIA E LASCIARLA IN CUSTODIA A MIA MADRE
NON  DIMENTICHERÒ MAI QUEL GIORNO !
 IL TRENO PENO DI GENTE, TUTTI SULLA VIA PER EMIGRARE,TANTE VALIGIE NEL CORRIDOIO, ALCUNE LEGATE CON LO SPAGO.
PER CERCARE E CONQUISTARE   UN POSTO A SEDERE BISOGNAVA ENTRARE DAL FINESTRINO.
ERAVAMO I POVERI DA SFUTTARE A PIACERE, IN BALIA DEI PADRONI  DELLA POVERTÀ.
IN QUEI MOMENTI DI SFIDUCIA NELLA GIUSTIZIA UMANA SENTIVI L’INCAPACITÀ DI REAGIRE .
I POVERI NON HANNO MAI LA FORZA DELLA RAGIONE, SOLO I RICCHI HANNO IL DIRITTO DI POSSEDERLA
COMINCIÒ  COSÌ UN LUNGO VIAGGIO VERSO UN PAESE RICCO DI CAPITALI MA DECISAMENTE POVERO IN QUANTO A UMANITÀ.
MENTRE IL TRENO COMINCIAVA LA SUA CORSA, IL MIO PENSIERO ERA ANCORA TUTTO ALLO SGUARDO, L’ULTIMO, DI MIA FIGLIA DODICENNE CHE ANCORA NON RIUSCIVA A CAPIRE PERCHÉ DOVEVO ANDARE COSÌ LONTANO.
PROVAI A RESISTERE A QUESTO DOLOROSO DISTACCO. MI SEMBRAVA DI ESSERE PRONTA A SCOPPIARE IN QUALSIASI MOMENTO. DENTRO DI ME IL CUORE E IL SANGUE SPINGEVANO LE VENE FINO A FARMI TREMARE TUTTA .
LA TESTA ERA UN DOLORE DA IMPAZZIRE E SENZA FINE
ARRIVATI ALLA FRONTIERA, LE VISITE NON FINIVANO MAI….  PER UN GIORNO INTERO DOVETTI ASPETTARE CHE LA POLIZIA ELVETICA MI RESTITUISSE IL PASAPORTO …
QUESTE ESPERIENZE E SENSAZIONI SPERAVO NON POTESSERO MAI RIPETERSI NEGLI ANNI SEGUENTI, MA LA POVERTÀ E TUTTO CIÒ CHE PORTA CON SE’  NON HA MAI FINE SENZA UN INTERVENTO DI GIUSTIZIA  SOCIALE IN TUTTO IL MONDO
DOPO POCHI GIORNI, TROVAI LAVORO IN FABBRICA, ALLA BRONW BOVERI DI BADEN; PER ME IL LAVORO RAPPRESENTAVA UN BUON INIZIO E TANTA SPERANZA CON CUI FANTASTICARE PER IL FUTURO. IL MIO LAVORO MI PIACEVA MOLTO….FACEVO IL MIO DOVERE, MA COMINCIAI A SENTIRE IN ME UNA CERTA RIBELLIONE VERSO LE INGIUSTIZIE. SAPEVO CHE LA MIA COSCIENZA AVREBBE ACCETTATO L’IDEA DI ESSERE SFRUTTATA MA NON DI ESSERE UMILIATA SUL LAVORO E IN CASA
IL PROBLEMA PIÙ GRANDE È STATO IMPARARE LA LINGUA  DI QUEL PAESE PER POTER CAPIRE E REAGIRE NEL MODO GIUSTO. LENTAMENTE CONQUISTAI LA FIDUCIA DELLE MIE COMPAGNE …ERAVAMO TUTTE IN UN PAESE STRANIERO A NESSUNO INTERESSAVANO LE NOSTRE IDEE E CREDENZE. SAPEVO CHE I PROBLEMI DOVEVANO ESSERE AFFRONTATI NEL MODO GIUSTO, SENZA PRESENTARE ALL’AZIENDA RICHIESTE INDIVIDUALI MA FACENDOSI PORTAVOCE DI TUTTO IL GRUPPO. LA FIDUCIA CHE SI ERA CREATA NEL NOSTRO GRUPPO CI PERMISE, PER IL MOMENTO, DI CREARE UN COMITATO DI SOLE DONNE.
MOLTE ERANO LE DONNE ITALIANE CHE LAVORAVANO IN CASE PRIVATE E LA NOSTRA VOLONTA’ ERA DI RENDERE TUTTE LORO PARTECIPI DEI PROBLEMI E DELLE POSSIBILITA’ DI RISOLVERLI
Canto “Signor padrone non si arrabbi”
Narratore. le dinamiche demografiche sono strettamente connesse con profondi cambiamenti culturali che l’incontro con l’“altro” porta con sé. Il mondo delle lavoratrici straniere presenti oggi in Italia in numerose attività come nel caso delle “badanti”, comincia ad essere una realtà consistente all’interno della nostra società. Le badanti abitano le nostre case, entrano nelle nostre famiglie per affrancarci da compiti e doveri che noi ormai non vogliamo o non siamo più in grado di svolgere. Ucraine, rumene, polacche, ma anche africane e filippine, ci sostituiscono con amore,
diligenza, competenza, accanto ai nostri cari ormai anziani o malati.
Per questo viene spontaneo chiedersi
come vivono queste situazioni di supplenza. E, anche se la loro presenza qui da noi non sarà per
sempre, ma solo momentanea e transitoria perché quanto prima faranno ritorno alle loro case,
cosa sappiamo della loro cultura di provenienza?
Dei problemi, dei drammi che si sono lasciati
alle spalle per risolvere i nostri? Cosa pensano, come vivono il tempo dell’emigrazione queste
donne coraggiose che oltretutto hanno affrontato sacrifici, difficoltà, incomprensioni fuggendo
dai loro paesi afflitti da miseria, disoccupazione, povertà con la speranza di un avvenire
migliore? Come, del resto, non ricordare il tempo in cui “gli albanesi eravamo noi”?
Quando erano le nostre donne, venete, friulane o romagnole, a passare coraggiosamente le frontiere di tutto il mondo alla ricerca di lavoro, ad affrontare le stesse difficoltà di lingua, tradizioni e
culture diverse? Parlare con queste persone, dare loro voce, significa considerarle attori di un importante processo e non solo elementi passivi.
Video donne migranti di oggi

Letture testimonianze delle donne dal mondo
 Il mio paese, nel lontano Oriente, è uno stato in via di sviluppo. Per tradizione, religione e cultura, le donne, laggiù, devono molto rispetto agli uomini, non possono contraddirli, prendere decisioni proprie, dire la loro. Tutto è deciso dai maschi. Ho capito che devo cambiare il mio carattere, devo diventare più decisa, prendere in mano la mia vita. Oggi sono più sicura, più determinata, riesco a prendere delle decisioni da sola. Sono orgogliosa di questo mio nuovo modo di essere. Quando ritorno al mio paese, sono felice, perché i miei connazionali mi chiedono: “Come fai ad avere un carattere così forte?” Ho spiegato loro che, per avere tutto quello che ora ho, bisogna affrontare la vita in modo totalmente diverso.
Eti indonesia
Vengo da un paese della provincia di Tirana, da una famiglia povera. Ho sposato un ragazzo del mio paese che avevo visto solo due volte durante il fidanzamento.
In Albania non c’è lavoro per gli uomini, figurarsi per le donne; le donne sono come chiuse in gabbia. E’ brutto vivere lontano. Se ti viene da piangere e non hai tua mamma, tua sorella...chi ti tira su?
Mimosa Albania

Quando sono arrivata in Italia avevo quasi nove anni. Siamo arrivati nel ’98. Io a dire il vero non ero pronta… A Casablanca avevo tanti amici, quando ho visto la casa e il paese ho trovato tutto diversissimo. Il borgo era piccolissimo: aveva tre case! Quando mi hanno inserito a scuola, non sapevo la lingua, non conoscevo nessuno… questa è stata la difficoltà più grande. E’ stato bruttissimo. Io ho sofferto e anche mia mamma, che ha dovuto lasciare i suoi famigliari, ma è stata la decisione più bella perché in Marocco non avrei avuto futuro.
Kadijha Marocco
Siamo arrivati tutti in gommone. …. due ore di viaggio sul gommone, poi tre/quattro ore nel bosco per sfuggire alle guardie. Ci siamo poi riuniti in un punto per pagare gli scafisti; Siamo poi tornati sul gommone  perché ci avevano intercettato e hanno “fatto finta” di rimandarci indietro.
In realtà dopo un po’ di mare siamo tornati a sbarcare sulle coste pugliesi
Sul gommone c’erano spie, se volevi rimanere in vita eri costretto a stare zitto.
 E’ stato terribile ma o morivi in Albania o ti andava bene in gommone
Però questo viaggio mi fa ancora riflettere e riesco a penetrare nella sofferenza delle persone perché ho toccato con mano la sofferenza e la paura.
Lorina, Albania
 Vengo da una bella famiglia: i miei genitori erano insegnanti nella scuola della zona.
La mia infanzia è stata meravigliosa, non mi mancava niente.
Ho studiato con profitto fino alla terza superiore, ho anche frequentato l’istituto musicale e suono il violino.
Poi, però mi sono sposata ed è finita la mia carriera di studentessa.
Ho deciso di partire, perché i miei figli avessero un future migliore del mio.
Li ho lasciati con la mia mamma, ho lasciato con loro il mio cuore e, adesso, da più di un anno, sono in Italia.
L’inizio è stato duro: la lingua, le abitudini, la cultura… non sapevo niente degli italiani! Eppure siamo così simili come popoli! mi mancano i miei figli! Nonostante ciò, ho un altro sguardo sulla vita, più positivo, anche per il futuro dei miei ragazzi. Spero di riuscire a realizzare i miei sogni ed essere, finalmente, felice.
Carolina

Non sono andata a scuola, ho dovuto occuparmi fin da piccola dei miei fratelli e delle mie sorelle.
Purtroppo mio padre, come succedeva allora in Marocco per parecchie donne, non era troppo d’accordo sul fatto che io dovessi imparare a leggere e scrivere!
Adesso, a cinquant’anni, sto cominciando a studiare l’italiano, visto che sono analfabeta in arabo. Ma è difficile, si fa fatica alla mia età.
Amina, Marocco

Nuova migrazione dall’Italia verso l’estero
Narratore  Mentre in passato l’emigrazione riguardava lavoratori poco qualificati, oggi si assiste allo spostamento di personale dotato di qualifiche professionali medie e talvolta alte. Appartiene a
quest’ultima tipologia il fenomeno della «fuga dei cervelli», che coinvolge lavoratori e lavoratrici
(solitamente giovani) del settore terziario avanzato e della ricerca che si spostano in cerca di prospettive di carriera e di sviluppo professionale.
Cosa spinge le giovani donne italiane oggi a partire, a lasciare l'Italia?  Emigrano in parte "per scelta", in parte "per necessità", ma è una necessità di tipo diverso rispetto al passato.
In Italia possiamo sopravvivere certo, vivere, ma realizzarci è sempre più difficile.
Le nostre esigenze ed aspirazioni sono ovviamente diverse rispetto al passato.
Un’esperienza all’estero è vista da molte ragazze come una formazione necessaria, ma intesa come temporanea. Tutte pensano di tornare…
Giovani laureate prendono questa decisione importante perchè all’estero trovano migliori condizioni economiche e lavorative, maggiori possibilità di fare carriera e meritocrazia, penalizzando però la ricerca italiana e il nostro paese in generale.
Lo fanno soprattutto perché sentono che fuori dall'Italia saranno valutati per quello che sanno e perché all'estero guadagnano meglio.
L’aspetto positivo è che il viaggio è stato sempre visto come momento per ritrovarsi, per conoscersi meglio e per comprendere lati sconosciuti di se stessi.
Forse questa scoperta la si può fare solo se si parte, solo se si decide di viaggiare con una valigia quasi vuota, priva di ricordi e affetti vecchi, che deve essere riempita da affetti e certezze nuove, che renderanno ogni viandante una persona migliore...

Lettura   
Mi sono trasferita in Irlanda nel 2005 per imparare l’inglese e poi sono rimasta avendo trovato lavoro nel mio settore e con una semplice laurea, scienze della comunicazione, ho subito avuto un contratto regolare, ferie pagate e un ambiente di lavoro meritocratico e leale.
Ma l’Italia mi manca ogni giorno di più.
Passato l’entusiasmo dei primi due anno sono alla ricerca ogni giorno di un’alternativa per lasciare l’Irlanda.
 Mi mancano i miei che invecchiano da soli e che posso vedere una volta all’anno.
Mi manca il sole e poter mettere un paio di scarpe aperte l’estate.
Fare una passeggiata ad agosto senza preoccuparmi che inizi la tormenta con pioggia e vento.
Mi manca il mio cibo, essendo costretti a mangiare pomodori gonfiati importati dal medio oriente.
Mi manca la cultura. Andare a teatro a vedere una pièce in lingua italiana !
Quella cultura e quell’arte che tutti ci invidiano nel mondo !
Perché io devo essere costretta ad emigrare ?
I miei colleghi Irlandesi vorrebero tanto trasferirsi in Italia !!!! nessuno in Italia si preoccupa di noi, ma il disagio è crescente, siamo in tanti a Dublino stufi di una serie di cose.
Vogliamo indietro il nostro paese.
Voglio vedere invecchiare i miei genitori.
Non potete pensare che ce ne andremo via così senza fare storie.
Basta, basta, basta !!!

Finale:            Canto  “Mille euro al mese”     Canzone attuale adatta alla chiusura

1 commento:

  1. Queste storie ci danno la percezione di quel periodo storico appena passatoe la dimensione umana di quel dramma che tuttora dura,in un modo diverso,oggi più imbelletato ma non meno crudo e ingiusto.. Zambo

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