lunedì 30 luglio 2012

POESIE A SELVAPIANA - I GINESTRI DI PORTELLA, DI FRANCESCO BILLECI

I GINESTRI DI PORTELLA

Era lu primu maggiu ru quarantesetti
cu li cavusi curti e li scarpi senza quasetti
cu me matri e me patri n’capu li carretti
iamu vicinu ‘a chiana pi manciari
zemmula cu avutri cristiani a festeggiari.

U tirrenu era chinu ri ginestri in ciuri,
tuttu era chinu di l’oduri
i fimmini si mittianu li falari
e la tuvagghia n’terra ri parari.

Li masculi circavanu a ligna sicca r’addumari
lu focu p’arrustiri avianu a preparari
e quantu fumu biancu viria spagghari.

Un picciriddu m’addumannava
si cu iddu vulia jucari
me matri calata c’arrustia
mi taliava ‘nta facci e mi ricia
“Senza curriri figghiu mio,
comportati bonu e nun fari vucciria”
eu la vasava cuntentu e comu un furmini
mezzu lu furmentu scumparia.

Era na bedda jurnata, eu  jucava a mucciareddu
lu suli  cucenti sbattia nta li petri comun enti
e d’oru li facia viriri a la genti.

C’era cu vivia e cu arrustia
cu vasava la  zita e poi riria
cu si curcava nto virdi e poi s’addummiscia.

E mentri taliava me matri nca riria
e me patri nca cu n’avutru cristianu riscurria
tuttu nsemmulla  sintivi li botti e bitti faiddi,
nun capia chi succiria
nterra ceranu tanti picciriddi
r’allatu a mia li cristiani
sammucciavanu comu li cunigghia
e circavanu addannati  la famighia.

giovedì 12 luglio 2012

CON LE MANI, CON LE BRACCIA E CON IL CUORE - "Ieri e oggi il lavoro delle donne"

Serata sul lavoro femminile alla festa della Biasola (RE) - 16 giugno 2012
Apertura: Canti   “Son la mondina son la sfruttata”
                                “Senti le rane che cantano”
                                Video: Proiezione in sottofondo delle foto delle mondine (Filmato)senza musica
Narratore
mia mamma mi diceva che… i mal di testa feroci che cominciarono in risaia, quand’aveva solo 14 anni, non l’hanno più abbandonata per tutta la vita.  Acqua sotto, spesso acqua sopra, piegate, nella tensione continua, nella fatica disumana.
Erano quasi tutte ragazzine, allora. Alcune, di soli tredici anni, partivano per la prima volta, spensierate. Salivano all’alba su quel lungo treno-bestiame che le raccoglieva attraverso le campagne padane. Era, di solito, il 24 maggio. La sera tardi erano già in Piemonte, a Novara, a Vercelli. Venivano a prenderle alla stazione, con i carri, e poi via, verso le cascine, per quaranta, quarantacinque interminabili giorni. Sempre in gruppo, nel lavoro, nel canto, nella vita. Nello stanzone dormivano in venti (ma, a seconda delle dimensioni, anche in cinquanta o sessanta), coi fili per la biancheria stesi a raggiera tutt'intorno, c'era il pagliericcio da riempire di fieno e da cucire grossolanamente, delimitandolo a un'estremità con quella cassetta in legno che, per la mondina, era tutto: valigia, armadio, tavolo, cassaforte, rifugio, casa.
Sveglia alle 4.30, al più tardi alle 5: il caposquadra passava tra i pagliericci addormentati tirando più o meno scherzosamente i piedi ancora stanchi. Seguiva  una  rapida  lavata nella fredda acqua della roggia, il fosso vicino alla cascina. Gli uomini direttamente impegnati nella monda del riso erano pochi: si trattava soprattutto di "cavallanti", circa quattro o cinque ogni cinquanta donne.
Mondine e cavallanti raggiungevano le terre bagnate, distanti anche mezz'ora di cammino, e lì iniziavano la giornata di lavoro che durava dalle otto alle dodici ore, spesso superando "inavvertitamente" la soglia sindacale. 
Il lavoro era duro veramente. Nelle varie "quadre" o "piane", misurate in pertiche, in cui venivano suddivise le risaie, le donne, da sei o sette fino a dodici, si disponevano in file parallele. Così, a testa in giù, in mezzo all'acqua anche al ginocchio, fino a pomeriggio inoltrato, a mondare il riso, 
Di tutti i tipi, erano gli animali: innanzitutto, bisce. Venivano afferrate, dalle più coraggiose, per la testa, fatte roteare due o tre volte in alto e poi scagliate all'indietro.

 E c'erano tafani; i cervi d'acqua grandi come una noce, con vere e proprie corna; i sòregh, i topini d'acqua, che facevano il nido nel riso e che, mondando, si finiva per cogliere con la mano.
E la mariètta? La mariètta e il fa prèst, appena un po' più grande, erano insidiosi, invisibili come i pappataci; il loro morso, rapidissimo tra le dita affaticate, "faceva quasi perdere la ragione", 
Per gli inevitabili bisogni fisiologici si faceva un passo indietro o lateralmente; non si poteva uscire dalla fila, non era permesso
  "Sta' giù, piegati!", brontolavano le più vecchie, che la miseria ottocentesca aveva forse costretto a piegarsi non solo nel corpo.
I sacrifici quotidiani si prolungavano nel mangiare: scarso, ai limiti della sussistenza. Riso e fagioli, fagioli e riso. Per cambiare, maccheroni e riso. 1 kg. di riso al giorno, verso il '50, era anche l'aggiunta alla paga, da portare a casa. Volendo, si poteva comprare qualcosa da mangiare ma era un orgoglio, oltre che una necessità, tornare a casa con la "campagna" tutta intera.

martedì 10 luglio 2012

LA MAGIA DEL PANE - RACCONTO D'ESTATE


Nonno Carlo e nonna Eva: il vino in tavola il giorno della sagra

La scodella, protetta da un tovagliolo, sostava per una settimana in un angolo del “tricantun” di lucido legno nero. Il mobile era in sala, stanza fresca anche d’estate, anzi: gelida in inverno, essendo solo la cucina riscaldata dalla stufa.
La scodella emanava un profumo acido già dal secondo giorno e contribuiva ad arricchire quell’orchestra di odori che ti avvolgeva appena dischiudevi l’anta.
Sinfonia di profumi unici: di frutta secca, di funghi, di caffé, di spezie.
C’era poco di tutto lì dentro, pochissimo, ma c’era di tutto: cartocci ben chiusi di prugne e amarene seccate, sacchetti di funghi, il barattolo del caffé vero e quello dell’orzo, i vasi di “savurett” e di marmellata di prugne, i pacchetti del sale, qualche contenitore con i chiodi di garofano, la cannella e la noce moscata.
Erano le spezie più usate nei cibi: per lo stracotto, per il vin brulé, per la torta di castagne, e, in particolare, la noce moscata era indispensabile nel “peng” (ripieno) dei cappelletti e dei tortelli di zucca. Profumo di bosco era quello delle coccole di ginepro, raccolte per tempo sul Monte Battuta e conservate in un involucro per essere tuffate, all’occorrenza, nella marinata del coniglio arrosto.
E poi, lì dentro, c’era, per l’appunto, la scodella dell’ “alvadur”, il lievito madre. Un pugno di pasta estratto ogni settimana, bello fresco, dal pastone del pane e riposto al buio, dove seccava quasi completamente. La pasta madre. La magia del pane.
Mia mamma, la sera prima della giornata dedicata al pane, prelevava dal “tricantun” quella crosta preziosa (diventata, in sette giorni, un tutt’uno con la scodella); già si era cenato e sparecchiato, e lei cominciava allora il rito delle operazioni preparatorie.
Calcolando che s’era alzata alle quattro del mattino (come tutte le donne del paese…) per andare nella stalla e che non si era fermata un secondo durante la giornata, io la guardavo e mi chiedevo dove trovasse l’energia per lavorare ancora fino a mezzanotte.
Eppure ce la faceva. Doveva: non c’era alternativa.

venerdì 6 luglio 2012

IL PATTO DI KATHARINE - Gli strani casi di Dario Lamberti - Romanzo di Massimo Storchi

Entrare nel libro e ritrovarsi. Ritrovare il ritmo di tante letture passate, ritrovare la pulizia dei personaggi positivi e lo schifo, tuttavia non pornograficamente esibito ed esaltato, di quelli negativi. Non mi succedeva da tanto. Il racconto delle vicende del giovane aviatore Dario Lamberti che torna in licenza a Reggio Emilia il 20 ottobre 1941 mi ha subito rituffato in altre vicende simili. "Tempo di vivere tempo di morire" ( di Erich Maria Remarque), con  Ernst Graeber, che accetta quasi controvoglia una licenza di due settimane dal fronte russo e ritorna alla sua città natale, Werde. Qui  incontra una giovane donna, Elisabeth Kruse, della quale si innamora, sposandola e vivendo con lei un breve interludio di felicità, perlopiù incentrato sul cibo che i due riescono a procurarsi in un clima di privazioni che va generalizzandosi. Le donne di Lamberti sono invece due, anzi tre se si include una sorta di escort dell'epoca; c'è Giovanna, la fidanzata che non è riuscita a rimanergli fedele e di cui egli scopre subito il tradimento, e c'è Margherita, cioè... Katharine, perchè, a detta del protagonista, somiglia in modo impressionante alla "rossa atomica" attrice americana. Bel personaggio femminile la cui psicologia è molto ben tratteggiata dall'autore. L'intreccio del romanzo ha qualcosa del giallo, pur rimanendo centrato sugli aspetti affettivi e sulle problematiche interiori dei personaggi. Il mondo borghese della città di Reggio in piena seconda guerra mondiale viene via via svelato nella sua banale quotidianità, ma anche nei normali orrori che  vi erano cresciuti come un cancro durante il fascismo. Storchi ha la capacità di raccontare pure geograficamente la città e parte della Provincia, senza però cadere in quella stucchevole finta nostalgia campanilistica che incrosta tanta sedicente letteratura "locale". Tante le citazioni; una, in particolare, a pagina 200, riprende la traduzione di Qoelet di Erri De Luca: "Spreco degli sprechi..." Gran bel romanzo. Da leggere assolutamente.